Padiglione Cina, dove l’agricoltura sostiene un colosso innamorato della modernità
I campi terrazzati e la rivoluzione del riso. La coltivazione del tè, l’allevamento, il viaggio della seta. Così si presenta la regione del Fiume Giallo. Che punta sui suoi prodotti, perché l’esotico non paga
Il giallo dei fiori che riempiono il campo davanti al padiglione della Cina rimarrà a lungo nella vostra memoria, non solo in quella, digitale, della vostra macchina fotografica. L’esordio cinese a un’Esposizione universale è ricco di contenuti, di storia, di contraddizioni. Sotto il tetto di legno di bambù, ondulato come l’onda di un mare agitato, hanno trovato spazio narrazioni millenarie, dalle coltivazioni a terrazza fino al tè, dalla piscicoltura della carpa alla preparazione dell’anatra laccata. C’è la rappresentazione del vasto universo cinese, sotto quelle onde, una cavalcata lungo i secoli. Se non vi farete distrarre dall’immancabile gadget elettronico, che qui assume le forme di un “tester della nutrizione equilibrata”, troverete tracce di una cultura che ha imparato a organizzare le risorse della Terra già millecinquecento anni fa. Jia Sixie scrisse Qimin yaoshu (“Tecniche essenziali per i contadini”) nel 535: dieci volumi nei quali si descrivono le tecniche dell’agricoltura nella regione del Fiume Giallo, i problemi delle aree secche, i modi per trattenere il più a lungo possibile l’umidità. Sono partiti presto, i cinesi, con metodo. Hanno studiato, scritto, catalogato, tramandato e migliorato. I testi che sono giunti fino a noi lasciano intendere, nella Cina dell’epoca, una atten- zione “alta”, delle classi più istruite, verso la coltivazione della terra. L’utilizzo della parola scritta era allora una discriminante straordinaria tra chi sapeva e poteva e la massa indistinta della popolazione. Quei testi sono l’eredità di una civiltà agricola che ha iniziato a svilupparsi sul monte Hua, una delle cinque grandi montagne sacre cinesi
– dove alcune pitture rupestri sono arrivate fino a noi – e nella valle del fiume ZuojiangYoujiang, dove nacque e si sviluppò la civiltà del riso, che risale al 4000 avanti Cristo.
Civiltà fluviale. Entrando nel padiglione è necessario non farsi prendere dalla fretta, cercare, guardare, trovare la pazienza per leggere, senza fuggire in avanti, spinti dalla rincorsa a quello che viene dopo. La Cina insegna la virtù della pazienza, sintetizzata all’inizio del percorso dai carapaci di tartaruga e dagli studi sulla pesca. Non solo il plastico di una remota civiltà fluviale, un presepio ad altre latitudini, ma soprattutto la ricerca e la sperimentazione per arrivare a individuare nelle radici di loto il nutrimento ideale per stimolare la crescita della carpa: veri e propri allevamenti con l’unico intento di dare cibo alle popolazioni. Si rimane affascinati dalla profondità della ricerca cinese nella cura della terra e delle acque, nella selezione degli allevamenti. Dai campi terrazzati fino alla rivoluzione del riso ibrido di Yuan Longping. C’è evoluzione, forza, ricerca nel percorso cinese, salvo poi imbattersi nell’inatteso. In questo tempio della magnificenza orientale, dov’è finita quella paccottiglia senza valore, quelle cineserie di dubbio gusto che quotidianamente assalgono la nostra esistenza occidentale? All’Expo il lato meno nobile della produzione cinese assume le forme di un tabellone che illustra la millenaria cultura della coltivazione del tè. Una parte è stata redatta in mandarino, l’altra nel più improbabile italiano del momento, frutto avvelenato di una traduzione frettolosa, probabilmente affidata a internet, che sembra uno di quei messaggi di posta elettronica che hanno l’unico obiettivo di truffare chi lo riceve. Una macchia, nello splendore delle ricostruzioni che non si limitano al cibo, ma richiamano tutti i prodotti della Terra, anche il fantastico viaggio della seta, che da Xi’an è arrivata a Roma passando per la Venezia che fu patria di Marco Polo, una Serenissima repubblica che sui commerci con universi lontani seppe arricchirsi e costruire la propria immortalità, anche oltre le acque basse della propria laguna. L’arrembante Cina incombe su quei territori vocati a miti coltivazioni, il riso, il tè, i pesci da far crescere e una cucina che considera tutto, anche ciò che non siamo disposti, noi occidentali, a portare alla bocca. La crescita degli ultimi decenni toglie il fiato: dal 1978 al 2013 la popolazione residente in maniera permanente nelle città cinesi è aumentata da 170 milioni a 730 milioni di individui, il tasso di urbanizzazione è passato dal 17,9 per cento al 53,7 per cento e il numero delle città, il nuovo polo di attrazione per quanti ancora nascono numerosi nelle vaste aree agricole, sono passate – nel medesimo arco di tempo – da 193 a 658. Città dai nomi sconosciuti, metropoli con milioni di abitanti davanti alle quali, noi italiani medi, ci troviamo spaesati, ricadendo nello stesso errore dell’americano che confonde l’Italia con la Francia. La tensione evolutiva di questa nazione, prima economia al mondo per prodotto interno lordo, secondo i dati in dollari resi pubblici dalla Cia, si alimenta della migrazione interna tra le infinite campagne e le città di domani, funghi dai nomi sconosciuti che crescono di notte. Una macchina che negli ultimi anni aumenta stabilmente di oltre il 7 per cento annuo, inurbando popolazioni che nel loro trasferimento vengono trasformate da contadini a consumatori. Eppure, in quella che secondo alcuni continua a essere la “fabbrica del mondo”, dove produrre conviene sia per il basso livello dei salari, che per le possibilità di aver sbocco sul mercato interno, l’agricoltura ha ancora oggi un ruolo e una forza che non si trova in alcun altro Paese al mondo: vale il 9,7 per cento di un pil stimato il 17,63 trilioni di dollari. Nessuno riesce neppure ad avvicinarsi a tanto. Un impatto economico e sociale imponente: su una forza lavoro stimata in 800 milioni di persone, l’agricoltura ne assorbe oltre un terzo, ovvero circa 250 milioni di lavoratori, oltre quattro volte l’intera popolazione italiana. Un settore dedicato prevalentemente al consumo interno e da questo robustamente sostenuto. Il cinese preferisce mangiare il frutto della sua terra. L’esotico non paga, neppure tra le classi agiate. Il finale è luminoso e abbacinante: l’idea di un campo di grano in fibre ottiche che muta il colore, non solo il giallo, come se fosse sferzato dal vento.
L’agricoltura ha ancora oggi un ruolo e una forza che non si trova in altri Paesi: vale il 9,7 per cento di un Pil stimato in 17,63 trilioni di dollari