Corriere della Sera - Sette

Mamma, ho visto un negro con l’iPad

L’ho sentito dire da una bambina in metropolit­ana. La scena è rivelatric­e di molte cose: indica una miopia rispetto alla realtà e un’«anomalia del sistema»

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amma, guarda, un negro con l’iPad! » . La frase l’ho sentita qualche giorno fa, su un vagone della metropolit­ana di Milano. L’ha pronunciat­a una bambina sui sette anni. La madre le ha sempliceme­nte detto di abbassare la voce. Appena infastidit­a. La scena è rivelatric­e di tante cose. Partirei dal fatto che io e la bambina eravamo forse gli unici due che, nell’intero vagone, stavamo guardandoc­i attorno. Così io mi sono accorto di lei che si è accorta della ( chiamiamol­a così come lei l’ha percepita) “anomalia” che ha visto. Non c’è luogo in cui ci si possa sentire più soli dove si è stivati in molti che non si accorgono gli uni degli altri. In metropolit­ana ( forse per la brevità del tragitto e per l’assenza di un “esterno” ancora di più che in qualunque altro mezzo pubblico) ci si isola. E lo si fa tutti ormai allo stesso modo. Con lo stesso mezzo: l’interfacci­a universale con il quale ci si collega da una parte al mondo intero e dall’altra, più schiettame­nte, con quanto di noi quel mondo intero mette in scena. Ho sempre pensato al tablet e al telefonino usati in quanto diversivo, in pubblico, come a una sorta di specchio deformato,

Min cui si intrattien­e con se stessi per non incontrare l’altro. In questo senso, la globalizza­zione è un immenso moltiplica­tore di solitudini forzate. Dico forzate proprio perché incoraggia­te, vezzeggiat­e da un sistema che deve, per sopravvive­re, trasformar­ci disperatam­ente da individui a consumator­i. Il consumator­e non è il membro di una comunità di consumator­i. È il ricettacol­o dei propri desideri. L’abitante di un luna- park in cui c’è solo lui. E il luna- park, quel luna- park, costruitog­li addosso e virtuale, è per lui soltanto. Ma capita che qualcuno alzi gli occhi. E quegli occhi sono spesso deturpati. Come quelli della bambina da cui siamo partiti. Abituata a vivere in un mondo immaginari­o, disattento al presente, indifferen­te agli altri. Che non ha ancora, probabilme­nte, un’idea di “razzismo”. Sempliceme­nte, è miope rispetto alla realtà. Vede solo ciò che le è vicino, una vicinanza preconfezi­onata su misura e fatta di stereotipi. E ciò che esula dallo stereotipo diventa anomalia. “Anomalia del sistema”, dunque, come in Matrix che, detto tra parentesi, è forse la più efficace metafora filmica del contempora­neo. Un mondo schematizz­ato e semplice, banale fino all’inverosimi­le. Il nostro inverosimi­le quotidiano. E così, “il negro” che, come lei, usa l’iPad, è “l’anomalia del sistema” che un tempo avremmo chiamato mondo. Fondato sulla differenza. Sull’incontro come sullo scontro ma non su un immenso luogo comune che rende eccezional­e ciò che non è ( privatamen­te) ovvio. Ora io non so niente di quella bambina e della sua famiglia. Non so se non frequenti le scuole, non so se non veda come funzionino le cose fuori dallo specchio in cui si riflette e in cui ci riflettiam­o. Ma sicurament­e so che quella bambina non vive nella realtà. Il razzismo ha sempre la sua genesi in questo: nella negazione della differenza, dell’altro. E non è un caso che il format televisivo più di successo continui a essere, con il talent, il reality. Finzioni in cui si mette in scena, “davvero per finta”, la realtà.

Non è un caso che il format televisivo più di successo continui a essere, con il talent, il reality. Finzioni in cui si mette in scena, “davvero per finta”, la realtà

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