L’editoria non è letteratura, ma neppure la sua serva
È stata il più efficace mezzo di promozione della lettura e continuerà a rendere possibile la creazione di opere d’arte destinate a durare
D iffido – devo confessarlo – delle domande di senso, così come in altri tempi ho diffidato delle domande esistenziali. Non solo perché penso che il loro luogo proprio sia il foro interiore, ma perché non credo abbiano una risposta, o per meglio dire una risposta se non definitiva almeno sufficientemente stabile. Penso che ognuno di noi se le ponga ogni giorno, che ogni giorno si affanni attorno a una risposta provvisoria e insoddisfacente e che alla fine trovi una soluzionede facto, ossia in quello che fa, nelle proprie scelte, nel proprio breve orizzonte. Guardo con invidia chi si carica il peso del secolo sulle proprie spalle, ma è un gesto che non è mio. Diffido quindi anche della domanda di Michael Krueger: « Che senso ha fare letteratura in un mondo non letterario? » . Qui Krueger parla dal punto di vista del poeta e letterato che lui è, non, credo, dell’editore. Peraltro la radicale negatività di questo interrogativo non gli ha impedito nel quindicennio che va dal 2001 a oggi di dare alle stampe una copiosa produzione poetica. Sono amico di Krueger da molti, moltissimi anni. Siamo coetanei, con una differenza d’età di due mesi, siamo entrati in editoria più o meno insieme. È un uomo di grande fascino e di malinconica ironia. Gli ho detto più volte: « Guarda come siamo stati fortunati! Siamo nati poveri, sfollati sotto le bombe o profughi, in due Paesi sconfitti, tra macerie e rovine non solo materiali. E invece siamo vissuti assai bene, facendo la vita che a noi davvero piaceva, in mezzo ai libri, campando di libri, respirando i libri. Di più, facendoli, i libri » . Sorrideva lieve- mente, ma non se n’è mai convinto. Credo che editoria ( libraria, s’intende), cultura e letteratura abbiano, o possano avere, relazioni più o meno strette, ma non credo affatto che si identifichino, che siano la stessa cosa. Non tutti i libri sono libri di cultura, a meno di attribuire a cultura un significato antropologico, come quando si dice la cultura degli indiani Nambikwara. Solo in questo senso di descrizione etnografica si può pensare che la maggior parte dei libri che adornano le nostre librerie siano cultura o di cultura. Allo stesso modo non tutti i libri di cultura sono libri di letteratura, nel senso che non tutti appartengono a quella specifica forma d’arte che è l’arte dello scrivere. Per restare alla letteratura, il fatto che il nostro mondo, o la nostra società, non sia più letterario può essere inteso al modo di un altro editore, Cesare De Michelis, appena più vecchio di Krueger e dime ( si vede che è un fatto generazionale), che rimpiange e vorrebbe restaurare la repubblica delle lettere. Idea in sé niente affatto sciocca né scioccamente elitista. Che le élite ci siano è un fatto, solo che sono quelle del denaro, che si chiamino economia o tecnologia. Alle quali si vorrebbe contrapporre, o affiancare, l’élite dello spirito. Un vasto programma. Ma l’interrogativo di Krueger può anche significare, e forse questa era la sua intenzione, che non si può più fare letteratura così come l’abbiamo sempre intesa, pensata e amata. Che l’arte della parola scritta si avvii all’estinzione. È questa un’idea non nuova, frequentemente applicata ad altre forme d’arte. Il modo di produzione industriale investe gli oggetti