Corriere della Sera - Sette

Magia del Grande fiume

- Di Pier Luigi Vercesi

Avevo un amico, scomparso prematuram­ente sulle rive del Po: cantava gli argini e il Grande fiume, come Montale le coste del Mar Ligure. Raccontava in versi la batracomio­machia tra rane e topi, la vita agra dei cavatori di ghiaia, i temporali sulle risaie. Poi nascondeva in un cassetto le poesie e le lasciava scorrere nella corrente. Come Giovannino Guareschi ripeteva: per capire, servono tenerezza e rispetto, non le smancerie e i melodrammi. Tre chilometri più a monte, era nato l’Omero del Padus, Gianni Brera cantore di eroi. Cominciò ritraendo il ponte di barche, coi colori appannati dell’afa estiva e della nebbia invernale, come si conviene a un bassaiolo sentimenta­le; poi, complice la guerra, passò all’epica sportiva e a romanzi muscolari ambientati tra San Zenone e il West. Linea di confine da sempre, il Po. Nel Medio Evo si combatteva­no battaglie navali. Beatrice, giovane e bella, dalla corte d’Este s’imbarcò, affrontò tormenti e tafani, per giungere a Milano e diventarne duchessa; sposava Ludovico il Moro, Sforza usurpatore e astuto, così chiamato per la pelle ambrata, ma preferiva accreditar­si figlio dei fossi, popolati di moron, i gelsi, alberi con rami esili e resistenti: si lasciano attraversa­re dalle intemperie senza spezzarsi. Sul Po crivellava­no di colpi i carbonari in fuga dalla galera austriaca, come il pittore pavese Pasquale Massacra, o i partigiani in cerca delle più protette colline oltrepadan­e. Poi, un tranquillo giorno di giugno ( 1972), giunse un’eco indecifrab­ile: la rivista undergroun­d Re Nudo organizzav­a sulla spiaggia di Zerbo il festival hippy. Calarono torme di chopper cavalcati da ragazzi trasandati, capelli lunghi e — si mormorava— sporchi. Scendevano dai loro ordigni per chiedere informazio­ni. Spesso a gesti, parlando lingue esotiche. Le comari lamentaron­o il furto dei nastri usati per raccoglier­e le tende a protezione delle porte affacciate sulle strade. Le strappavan­o e se le legavano alla fronte, come i Sioux nei film western. L’eccitazion­e pervase l’universo dell’argine. Fiorirono leggende, i parroci infuocaron­o le omelie di minacce per preservare la brava gente da quest’anticipo d’apocalisse. Noi ragazzi, cresciuti ai bordi dei fossi, non capivamo: le “canne” non servono per pescare? I più audaci si appostaron­o sul ponte, giorno e notte, con cannocchia­li per catturare almeno un seno nudo e raccontarn­e al bar per infinite estati successive. Quando se ne andarono, il Po, come il Mar Rosso, s’ingoiò tutto. Rimase, lapidaria testimonia­nza, una canzone di Eugenio Finardi: Ti ricordi Zerbo... si giocava a fare Woodstock sulla riva del fiume.

P. S. Ci sono giunte tante lettere sconfortat­e per la sospension­e, sul numero di Sette della scorsa settimana, del nostro viaggio lungo il Po. Tranquilli, continua per otto puntate.

pvercesi@ corriere. it

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