Magia del Grande fiume
Avevo un amico, scomparso prematuramente sulle rive del Po: cantava gli argini e il Grande fiume, come Montale le coste del Mar Ligure. Raccontava in versi la batracomiomachia tra rane e topi, la vita agra dei cavatori di ghiaia, i temporali sulle risaie. Poi nascondeva in un cassetto le poesie e le lasciava scorrere nella corrente. Come Giovannino Guareschi ripeteva: per capire, servono tenerezza e rispetto, non le smancerie e i melodrammi. Tre chilometri più a monte, era nato l’Omero del Padus, Gianni Brera cantore di eroi. Cominciò ritraendo il ponte di barche, coi colori appannati dell’afa estiva e della nebbia invernale, come si conviene a un bassaiolo sentimentale; poi, complice la guerra, passò all’epica sportiva e a romanzi muscolari ambientati tra San Zenone e il West. Linea di confine da sempre, il Po. Nel Medio Evo si combattevano battaglie navali. Beatrice, giovane e bella, dalla corte d’Este s’imbarcò, affrontò tormenti e tafani, per giungere a Milano e diventarne duchessa; sposava Ludovico il Moro, Sforza usurpatore e astuto, così chiamato per la pelle ambrata, ma preferiva accreditarsi figlio dei fossi, popolati di moron, i gelsi, alberi con rami esili e resistenti: si lasciano attraversare dalle intemperie senza spezzarsi. Sul Po crivellavano di colpi i carbonari in fuga dalla galera austriaca, come il pittore pavese Pasquale Massacra, o i partigiani in cerca delle più protette colline oltrepadane. Poi, un tranquillo giorno di giugno ( 1972), giunse un’eco indecifrabile: la rivista underground Re Nudo organizzava sulla spiaggia di Zerbo il festival hippy. Calarono torme di chopper cavalcati da ragazzi trasandati, capelli lunghi e — si mormorava— sporchi. Scendevano dai loro ordigni per chiedere informazioni. Spesso a gesti, parlando lingue esotiche. Le comari lamentarono il furto dei nastri usati per raccogliere le tende a protezione delle porte affacciate sulle strade. Le strappavano e se le legavano alla fronte, come i Sioux nei film western. L’eccitazione pervase l’universo dell’argine. Fiorirono leggende, i parroci infuocarono le omelie di minacce per preservare la brava gente da quest’anticipo d’apocalisse. Noi ragazzi, cresciuti ai bordi dei fossi, non capivamo: le “canne” non servono per pescare? I più audaci si appostarono sul ponte, giorno e notte, con cannocchiali per catturare almeno un seno nudo e raccontarne al bar per infinite estati successive. Quando se ne andarono, il Po, come il Mar Rosso, s’ingoiò tutto. Rimase, lapidaria testimonianza, una canzone di Eugenio Finardi: Ti ricordi Zerbo... si giocava a fare Woodstock sulla riva del fiume.
P. S. Ci sono giunte tante lettere sconfortate per la sospensione, sul numero di Sette della scorsa settimana, del nostro viaggio lungo il Po. Tranquilli, continua per otto puntate.
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