Il vero nemico dei soldati è la paura che li divora Lorenzo Cremonesi
Combattono non per scelta, ma per imposizione. Al fianco di amici o compagni di scuola che spesso muoiono. E la mente non regge
Parliamo di un valore- concetto che ai nostri giorni può suonare un poco obsoleto, forse retorico: il coraggio. Scriveva Carlo Salsa, nel suo Trincee, un grande classico apparso nella seconda metà degli anni Venti che non risparmiava nulla alla crudezza della guerra, raccontando della prima battaglia dell’Isonzo ( 23 giugno - 7 luglio 1915) e le sue esperienze sul Carso: « Il coraggio non può nulla contro questa misera e terribile cosa: la massa non può nulla. Eravamo sprovvisti di tutto: e le ondate si impigliavano in queste ragnatele di ferro… Dovunque sul San Michele, a San Martino, al monte Sei Busi, all’altopiano di Doberdò, lungo le alture del Selz, questa marea di uomini fu avventata ciecamente contro la ferocia del nemico e delle sue difese, su per la pietraia ostile… e dovunque l’urlo dell’assalto fu soverchiato dal freddo balbettamento delle mitragliatrici. Si giunse fin sotto l’orlo del Carso… il terreno conquistato era stato coperto di morti; quasi tutti i reggimenti vennero pressoché annientati: non si poteva andare più oltre, senza artiglieria sufficiente, senza bombardare, senza nulla » . Con poche, vive immagini dal campo, Salsa spiega quanto anche il coraggio degli individui più ardimentosi possa ben poco contro le moderne armi di distruzione industriale. Che senso ha scagliarsi all’esterno delle trincee, petto in fuori, contro le nuove mitragliatrici che sparano migliaia di proiettili al minuto? Oppure restare impassibili, senza correre a ripararsi, sotto i bombardamenti micidiali dei cannoni ad alta precisione e tiro rapido di ultima generazione? Il coraggio rischia di apparire follia, se non pura stupidità. La tradizione occidentale, tuttavia, sin dalla filosofia greca, collega a filo doppio il coraggio con la guerra. Platone lo definiva tra l’altro con l’immagine del combattente « deciso a restare al suo posto contro il nemico e senza scappare » . Una descrizione che tutto sommato resta attuale anche nel 1914- 18. Una approfondita disamina del concetto di coraggio in quel conflitto appar- ve in The Anatomy of Courage, il libro pubblicato nel 1945 dall’ufficiale medico britannico Charles McMoran Wilson ( 1882- 1977), dal 1943 fatto barone e diventato semplicemente Lord Moran. Sin dalle prime pagine un concetto molto evidente viene descritto con anglosassone semplicità: il coraggio vince la paura. Sempre, in ogni guerra, rapidamente, nei due fronti, si instaura un’atmosfera dominata dall’incertezza e dalla paura. La paura nella guerra moderna è ulteriormente accresciuta dalla potenza delle armi a disposizione. I missili, i bombardamenti aerei, le artiglierie a lunga gittata, i nuovi mezzi di trasporto veloci, aumentano l’insicurezza. Il nemico può attaccare ovunque e in ogni momento. La morte è in agguato, non esistono più retrovie sicure. Diventa allora importantissimo evitare che il panico prenda il sopravvento. L’esercito che riesce con maggior efficienza a impedire che la paura, le voci incontrollate, il panico si propaghino tra i suoi ranghi è già ottimamente posizionato per assicurarsi la vittoria.
Un esercito di psicologi. Non a caso Lord Moran era un ufficiale medico. Vide i terribili massacri ( decine di migliaia di morti al giorno) nella battaglie della Somme nel 1916. Poi fu responsabile dell’ospedale inglese militare a Boulogne, giunse sul fronte italiano, dove gli venne tra l’altro conferita una medaglia d’argento. Ben presto si rese conto che oltre alle ferite fisiche in quella guerra c’erano ferite meno visibili, ma molto più subdole, potenzialmente pericolosissime, e cioè quelle psichiche e morali. Oggi le definiamo “post traumatic stress”, riguardano gli effetti deleteri che la paura, lo shock, l’insicurezza permanente, la costante vicinanza con i morti, i feriti, l’orrore delle distruzioni causano agli individui. Gli esempi contemporanei in questo senso si sprecano. Basti pensare alle decine di migliaia di veterani americani tornati in patria dal Vietnam e, più di recente, da Afghanistan e Iraq. Le vittime da “post traumatic stress” sono numerosissime, un autentico fenomeno collettivo dagli effetti deleteri per la società statunitense. Un esercito di psicologi ed esperti si prodiga per limitare il numero dei suicidi, cerca di fa-
cilitare il difficile rientro degli ex soldati nelle famiglie, nonostante i casi di divorzio siano in aumento. Lord Moran attacca il primo capitolo raccontando del suo incontro con le vittime “mentali” dei bombardamenti. Scrive: « Ad Armentiéres, un giorno del 1914, quando il Primo Battaglione dei Royal Fusiliers era acquartierato, Wickham che comandava la compagnia mi venne a dire che uno dei suoi sergenti era in una sorta di assenza. Lo aveva trovato a rimirare il fuoco per ore. Non si rasava, i suoi pantaloni erano mezzo sbottonati, non parlava. Non lo volevano considerare malato e mandare via dal battaglione, comunque non sembrava malato. Decidemmo di farlo riposare sino a quando il battaglione non fosse stato fatto uscire dalle trincee. Ma il giorno dopo, quando tutti gli altri erano partiti, lui si sparò alla testa » . Episodi di questo genere infarciscono quasi ogni pagina, dalla Somme ai massacri con le bombe chimiche su larga scala a Yipres. Gli effetti del gas sono deleteri per chiunque, anche per i più forti. Annota: « La storia della guerra moderna è caratterizzata dal costante flusso di uomini erosi dalla paura, che cercano di restare in piedi pur se ridotti allo stremo dall’equilibrio precario » . Osservando i sopravvissuti agli effetti dei bombardamenti si convince che occorre il ricambio costante delle unità in prima linea: « Credo che sia un fatto assodato per cui anche il più coraggioso dei soldati non può resistere indenne sotto il fuoco oltre un certo numero di giorni consecutivi, anche se i colpi sono poco intensi » . A ciò si aggiunge un’altra considerazione tutt’ora molto attuale. A differenza delle guerre precedenti la nascita dello Stato nazionale moderno, dove gli eserciti erano per lo più composti da volontari e soldati di fortuna, quelli delle due Guerre Mondiali furono eserciti di cittadini coscritti alla leva. Per loro la guerra non fu una scelta, bensì un’imposizione ordinata dall’alto. La conseguenza fu che la loro soglia di tolleranza agli orrori delle battaglie era di « grado inferiore rispetto ai soldati del passato » . Un conto infatti è scegliere la propria sorte e un altro essere stati scelti da un autorità superiore. Concludeva l’autore: « Siamo di fronte ad un sottile cambiamento nella natura degli uomini al fronte che non è stata effetto della guerra, bensì conseguenza delle condizioni di vita prima di essa. E ciò li ha lasciati privi di protezioni » .
Al fianco di Churchill. L’approccio radicalmente nuovo alle conseguenze psicologiche della Grande guerra sugli uomini dette rapidamente fama al lavoro di Lord Moran già negli anni Venti. Tanto che le sue lezioni universitarie servirono per preparare l’esercito britannico ad affrontare le sfide della Seconda guerra mondiale. Lui nel 1940 divenne il medico personale di Winston Churchill e in questa veste fu compartecipe, dietro le quintema in diretta, ai momenti più importanti del secondo conflitto mondiale.