Ecco le due ruote che hanno fatto girare l’Italia
Le tappe in notturna, i chiodi buttati in strada per dissuadere i motociclisti. Ma la passione di campioni e imprenditori non vacilla. Anzi, dopo le guerre trova vitalità e aiuta l’economia a crescere
Il progresso dell’Italia, in parte, è andato avanti su due ruote. Prima quelle delle biciclette, poi delle moto e degli scooter. È una storia che intreccia industria, sport e costume; ma anche intuito, genialità e intraprendenza. Nel 1910 circolavano 600 mila biciclette, dieci anni dopo erano più del doppio. Nel 1909 Luigi Ganna, un muratore che faceva in bici ogni giorno 100 chilometri per andare a lavorare a Milano e tornare a casa a Induno Olona, vinse il primo Giro d’Italia. Quando un cronista della Gazzetta dello Sport, all’arrivo, gli chiese la sua “prima impressione a caldo” la risposta, passata alla storia, fu: « L’impressione è che me brusa el cu » . Le tappe erano lunghe tra i 300 e i 400 chilometri, di solito si partiva di notte, la media era attorno ai 25 chilometri all’ora. A bordo strada, sterrata, si assiepavano decine di migliaia di tifosi e, nell’edizione del 1914, solo in otto arrivarono al traguardo. Nel frattempo si erano accesi i motori: nel 1913 c’erano 15 mila italiani che possedevano una motocicletta. L’anno successivo, dal 28 aprile al 3 giugno, scattò la prima competizione ufficiale: il Giro motociclistico d’Italia. Milano- Roma andata e ritorno: 2.300 chilometri quasi tutti sui tortuosi saliscendi appenninici affrontati per quattro volte da 56 concorrenti, anche stranieri, in sella a 21 marche diverse. Al traguardo ne arrivarono 21, gli altri vennero decimati da cadute, guasti e anche dalle manciate di chiodi buttati da chi non amava l’idea che quella corsa rumorosa, polverosa e puzzolente, passasse dalle sue parti. Anche se scrittori e artisti, con Tommaso Marinetti in testa, già esaltavano velocità e rombo dei motori, gli uomini comuni e gli animali domestici non erano per nulla dello stesso avviso. Ma le cose erano destinate a cambiare: un anno dopo la fine della Prima guerra mondiale le moto in circolazione in Italia erano 24 mila e 500.
Il momento delle vittorie. A ripercorrere quest’epopea lunga un secolo, di uomini e imprese, esce in questi giorni un libro illustrato, con i testi dello storico Valerio Castronovo: 100 anni di storia delle due ruote. Segue il filo tracciato dall’Ancma ( Associazione nazionale ciclo motociclo accessori) e dalle Esposizioni mondiali del ciclo e motociclo organizzate in Italia, e si inoltra quindi nella storia del Paese, anche quella contemporanea, che ha ancora tan- to a che fare con le due ruote. L’espansione delle biciclette in Italia è stata esplosiva: in quattro anni, tra il 1922 e il 1926, quando la popolazione totale era attorno ai 35 milioni, il loro numero passa da un milione e ottocentomila a tre milioni, nonostante il ciclismo non godesse di particolari simpatie da parte del Duce. È vero che Mussolini apprezzava i successi dei corridori italiani all’estero « ma il ciclismo » , scrive Castronovo, « in quanto nato e sviluppatosi nell’età liberale, appariva ai suoi occhi un residuo del passato, non era uno sport di impronta fascista » . Le sovvenzioni andavano ad atletica, scherma, pugilato e anche il motociclismo andava bene per celebrare “l’uomo nuovo”. Ma poi anche il regime fascista dovette scendere a patti con l’opinione pubblica, vista la passione che cresceva di anno in anno a bordo strada al passaggio dei corridori: « Nel 1936, in occasione delle celebrazioni per la conquista dell’Etiopia, il Regime decise di “rivalutare”, come scuola di ardimento e di abnegazione, il popolarissimo Giro d’Italia » . E le vittorie di Ganna, Bottecchia, Girardengo, Binda, Guerra, e poi di Bartali e Coppi erano – si direbbe oggi – un “volano per l’economia”, che smi-
se tragicamente di girare sotto le bombe della Seconda guerra mondiale.
Figli del conflitto. Nel 1945 si rialza la polvere su « un Paese avvilito e umiliato su cui si proiettavano ancora le ombre e le pesanti conseguenze dello sgretolamento delle strutture statali… » . E i problemi da affrontare erano enormi: ridare un tetto a due milioni di famiglie le cui case erano andate distrutte, dare lavoro a milioni di disoccupati, assistere i reduci dai campi di prigionia e sfamare una popolazione in gran parte ridotta allo stremo che non sapeva più a che santo votarsi. Alcune industrie del settore, come Bianchi e Benelli, erano in mezzo alle macerie. Meno danni alla Gilera, ma comunque un disastro. Eppure la gente ritrovò la forza di rimboccarsi le maniche e di ripartire. E qui, di nuovo, uomini e ruote riprendono a girare insieme. Tra i problemi quotidiani c’era quello di spostarsi dovuto alla scarsità dei mezzi di trasporto, tram o treni che fossero. « Di qui l’abbrivio che avevano preso le bici amotore in quantità crescente, semplici e facilissime da guidare e a buon prezzo » . Questi motocicli furono battezzati « figli della guerra, venuti al mondo per una scelta obbligata » . Si chiamavano “Guzzino”, “Cucciolo”, “Aquilotto” e “Mosquito”. E poi, capitolo a sé che non ha ancora finito di girare pagine nella storia industriale italiana, la Vespa, così chiamata per il ronzio che emetteva quando viaggiava. Un colpo di genio firmato da un tecnico chiamato Corradino D’Ascanio. In quegli anni parte anche la Lambretta, in modo da dividere il Paese tra i “tifosi” dell’una o dell’altra. Come quelli di Coppi e Bartali. Quindi il libro di Castronovo sfoglia gli anni a seguire: Ducati, Guzzi, Mv Agusta, oppure De Rosa, Colnago e Wilier, storie di imprese e soprattutto uomini; imprenditori più che manager. Il testo di Castronovo, le foto d’epoca, la grafica dei manifesti delle Esposizioni, Magni, Coppi e Bartali, la bici di Moser, Nibali, Agostini e Valentino Rossi, raccontano sogni realizzati dall’Italia. A cui, volendo, ci si può sempre ispirare.