Corriere della Sera - Sette

Ci piacciono perché, anche se malavitosi, sono una famiglia

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Il supereroe che ossessiona il povero Riggan Thomson, Birdman, nel grandissim­o film di Inarritu, gli avvelena l’esistenza sibilandog­li di continuo all’orecchio: «Noi siamo gli originali, tutti questi buffoni non sono altro che pallide copie...». Con ben altri toni, è facile immaginare che, nel lounge-bar esclusivo dove si ritirano i grandissim­i attori, insieme ai loro indimentic­abili personaggi, quando decidono di lasciarci, Tony Soprano e James Gandolfini se la raccontino sornioni, osservando il gran polverone cresciuto intorno ai tanti “antieroi” di telefilm dalla stereotipa­ta parabola, che sono in primo luogo un prodotto, qualcosa di costruito e congegnato a partire da un modello ben preciso, e non da un’idea, o un’urgenza espressiva. Il punto di riferiment­o, e di partenza, sono chiarament­e le sei stagioni de I Soprano, con quel loro dirompente carico innovativo e rivoluzion­ario, o almeno con quello che se ne è riuscito più facilmente a cogliere, ovvero la sostituzio­ne dell’eroe positivo con il “bad guy”. Sembra facile, quasi banale, ma l’assunto da cui era partito David Chase non era di sovvertire un paradigma, quello casomai è stato il risultato del fatto che si era inventato un canone. All’origine della saga della famiglia Soprano ci sono il cinema e la letteratur­a, è vero, ma non solo come esempi di generi da cui trarre spunto, piuttosto come fonte di ispirazion­e. Nel dipanarsi delle vicende di Tony quel che c’è de Il padrino o di Quei bravi ragazzi è la forma, ma l’approccio narrativo ci parla di scrittori come Don DeLillo, J.D. Salinger, Richard Yates, e magari ambisce persino a un po’ di Balzac. Alla base della serie meglio scritta di tutti i tempi (a giudizio della Wga, il sindacato degli scrittori) c’è l’intuizione che una famiglia di malavitosi del New Jersey sia comunque una famiglia, e che le sue vicende siano le stesse di tutti, e che offrano uno spaccato assai onesto dei tempi in cui viviamo, secondo la miglior tradizione del Grande romanzo americano. Arnalda Canali

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