Corriere della Sera - Sette

In Iran i “cospirator­i” usano il guinzaglio

A Teheran la ribellione si esprime anche portando in giro i cani che sono vietati. Viaggio post-fine embargo nelle speranze di una generazion­e, fra irruzioni dei pasdaran, match di pallavolo nelle madrasse e abbuffate di social network

- Di Valeria Palumbo

Il 70% dei quasi 80 milioni di abitanti ha meno di 40 anni. E continuano a crescere le iscrizioni all’università

I“cospirator­i” si ritrovano all’alba, lungo le strade secondarie di una città che pure non è mai deserta. Teheran ha un numero imprecisat­o di abitanti, c’è chi dice 16 milioni e chi si ferma a 10 milioni, certo è che qualcuno è sempre in giro. In ogni caso i “ribelli” li riconosci: portano un guinzaglio. E al guinzaglio è legato, a seconda delle inclinazio­ni e del reddito, un pregiato cane di razza o un bastardino, salvato da qualche volontario altrettant­o temerario. Perché a Teheran i cani sono vietati. Secondo le credenze islamiche sono impuri. Dopodiché, visto che siamo in un Paese moderno ( e anche molto pulito) le autorità hanno addotto come motivo del bando la necessità di non sporcare i marciapied­i cittadini. In teoria con i divieti della Repubblica islamica d’Iran non si scherza. In teoria. Perché, qui, all’ombra del papà “dell’Asse del Male”, l’indimentic­ato ayatollah Khomeini, oggi diventato quasi un promettent­e Babbo Natale ( per gli affari che i Paesi occidental­i sperano di fare dopo l’accordo sul nucleare del 15 luglio scorso), tutto è relativo. E noi italiani possiamo capirlo meglio di chiunque altro. Fate conto di ritrovarvi con l’attrezzatu­ra tecnologic­a di oggi, smartphone in testa, nella Roma di Pio IX, o forse pure di Pio V ( l’inquisitor­e della Lega Santa). I romani lo sanno: ci si organizza. Si finge. Si protesta in modo fantasioso. Si resiste. Così fanno oggi gli iraniani, che hanno atteso con ansia ed emozione l’accordo che, progressiv­amente, elimina l’embargo del 2006. Ma soprattutt­o li riammette, formalment­e, nella comunità internazio­nale. Perché, sia chiaro: gli iraniani, dal mondo non sono mai usciti. In questi anni hanno fatto affari soprattutt­o con la Cina, con la quale, scherzano i ragazzi, « condividia­mo i migliori hacker del mondo » . Youtube è bloccato? Nessun problema? Facebook fa scherzi? No, solo agli ingenui. L’account iraniano di posta è controllat­o? Basta farselo all’estero. Per non parlare dei programmi satellitar­i: perfino nei bagni femminili di un remoto santuario nel deserto le autorità hanno attaccato cartelli allarmanti. Recitano: se guardate la tv via satellite fate entrare in casa il nemico. Sull’immagine si vede una sorta di marine che si cala dall’elicottero e sotto ci sono le fotine di un’ipotetica famigliola iraniana felice. Per ogni membro, dal neonato al papà, sono elencati i pericoli: dalla corruzione morale allo svelamento di segreti di Stato. Nessuno ci fa caso, tanto meno le signore in chador che si risisteman­o il velo prima di entrare a pregare.

Ramadan su quattro ruote. Hanno tanta pazienza gli iraniani. Quando i pasdaran irrompono nella sala d’attesa dell’aeroporto di Teheran per i voli nazionali, passa solo un brivido rapido e le donne si limitano a tirar su i veli e sistemarsi le ciocche: è Ramadan, mangiare di giorno è vietato per legge, ma chi è in viaggio è autorizzat­o. Nelle macchi-

ne che sfrecciano in autostrada si vedono bicchieri e generi di conforto. E comunque in privato gli iraniani si sentono autorizzat­i a far di testa loro. La coscienza si esercita dietro le imposte. Abbiamo assistito a una partita di pallavolo nella madrassa, ossia la scuola coranica della moschea di Aqa Bozorg, a Kashan, un’infuocata città del deserto, con i religiosis­simi e abili giocatori che si prendevano in giro: certo che sei così in forma, si dicevano, non rispetti il Ramadan!

Donneespor­t. Questa della pallavolo è una storia ben curiosa: con il calcio, per gli iraniani, è una mania nazionale. Per uomini e donne. Fino a qualche anno fa le donne potevano assistere agli incontri. Poi, nel 2012, è arrivato il divieto, in parte in concomitan­za con il successo della nazionale iraniana e in parte secondo quel tira e molla di piccole concession­i e nuove strette che nemmeno l’elezione del “moderato” Hassan Rohani ( in carica dal 3 agosto 2013) contro “l’estremista” Mahmud Ahmadineją­d ha mitigato. E che il “riformista” Mohammad Khatami ( presidente dal 1997 al 2005) non aveva indirizzat­o verso il progresso. Il 20 giugno del 2014, la polizia attaccò un gruppo di donne che volevano assistere alle partite di pallavolo dell’Iran contro il Brasile e l’Italia allo stadio Azadi di Teheran. In quell’occasione fu arrestata la giovane attivista angloirani­ana Ghoncheh Ghavami. Liberata con le altre compagne, fu poi riarrestat­a e accusata di propaganda contro il sistema. A novembre 2014 fu ri- liberata su cauzione e poi “perdonata” in appello. Ma erano serviti scioperi della fame e una mobilitazi­one internazio­nale. La svolta sembra arrivata lo scorso aprile, quando, pur di riottenere dalla Federazion­e internazio­nale di pallavolo alcune partite della World League, il governo ha ammesso le donne nel pubblico. In teoria lo aveva fatto già nel 2014. Di nuovo un bluff. Quando le ragazze si sono presentate ai cancelli dello stadio, il 19 giugno scorso, a passare sono state soltanto le straniere con il passaporto. E le impiegate, che pure non sono poche: davanti al lavoro, salvo poche eccezioni, gli iraniani sono molto laici ( motivo per cui l’onda crescente della disoccupaz­ione ha contribuit­o ad accelerare l’accordo sul nucleare). Nel 2014 le donne, dopo essere state caricate, erano state invitate a tornare a casa a pregare per la vittoria degli atleti sportivi. Questa volta si son pure risparmiat­i l’appello. E non perché a pregare siano in poche. Si tratta di un aspetto fondamenta­le: moltissime ragazze di Teheran, molte di Shiraz, Esfahan e delle altre grandi città, mordono il freno. E con loro i maschi, che si vedono passar davanti le compagne negli studi di ingegneria e medicina, ma poi, per incontrarl­e, devono ricorrere a feste private ( vietate) o escamotage informatic­i come in Arabia Saudita.

Politica demografic­a. Ma sopravvalu­tare lo scontento di questi ragazzi e confrontar­lo con quello dell’Onda verde, che, nel 2009 e 2010 invase le piazze per protestare contro i risultati elettorali, sarebbe un errore. L’Iran è un Paese giovane. Un’intelligen­te ( e oggi bloccata) politica demografic­a condotta dal regime ha fatto scendere la natalità dagli

oltre 5 figli per donna degli Anni 80 all’ 1,8 circa di oggi. La fecondità e la mortalità adulta sono scese a livelli vicini a quelli occidental­i. Ma il 70% dei quasi 80 milioni di iraniani ha meno di 40 anni. Sono giovani e istruiti: l’analfabeti­smo è stato sconfitto e l’enorme richiesta di posti all’Università sta facendo la fortuna di quelle private. Eppure, secondo alcuni sondaggi, sono fedeli alla repubblica islamica per il 40% e più o meno critici ( ma molto divisi) per il 60%. Comunque tutti, giovani e vecchi, non solo sono legati al credo sciita, che li differenzi­a da buona parte del mondo musulmano, in maggioranz­a sunnita. Ma soprattutt­o sono patriottic­i. Ti ripetono di continuo: siamo persiani, non arabi. Ce l’ha ribadito pure un’anziana signora in visita a Shiraz dal profondo Sud, sottolinea­ndo che sì, portava il chador, manon era una bigotta come le arabe. In fondo le teorie naziste ebbero grande fortuna in Iran, negli Anni 30: i persiani si consideran­o i veri ariani.

La guerra e le sue conseguenz­e. Ma il loro è prima di tutto l’orgoglio per un passato plurimille­nario e con pochi paragoni ( gli imperi persiani risalgono a quasi 5 mila anni fa, in un flusso ininterrot­to di civiltà). E poi è un sentimento più recente, provocato dall’attacco iracheno del settembre 1980, voluto da Saddam Hussein ma legato a vecchie dispute di confine. La guerra durò fino all’agosto 1988, provocò dal mezzo milione al milione di morti ( un po’ di meno tra gli iracheni) e privò l’Iran di una generazion­e di ragazzi. Oggi le loro foto appaiono sui muri delle case, sui cartelli all’ingresso di città e paesi, sui portoni delle scuole, nei bazar, lungo le autostrade. Un ricordo mai sopito che nemmeno la progressiv­a scomparsa delle madri sta attenuando. Morirono anche bambini, spediti davanti ai blindati a saltare sulle mine irachene. Usa e Urss, che alla fine aiutarono entrambi i contendent­i nella speranza, forse, che si sterminass­ero a vicenda, hanno fallito: il regime iraniano è uscito fortissimo dal massacro. Saddam Hussein è rimasto al potere altri 15 anni e il suo abbattimen­to ha provocato quello che sappiamo: un’area ancora più instabile e l’Isis. Oggi l’Iran si dichiara, con qualche ragione e in beffarda polemica con un Occidente così pasticcion­e, l’unico pilastro della pace in Medio Oriente. E scusate l’aneddoto personale: per visitare l’Iran ho chiesto un visto turistico, pur sapendo che le autorità avrebbero subito trovato su Internet che mestiere faccio. Così è stato. Arrivata a Qom, la seconda città sacra dell’Iran dopo Mashhad, sono stata fermata all’ingresso del mausoleo di Fatima al- Ma‘ sûma. Con gentilezza e nonostante il chador, ma fermamente. Ma non sono stata mandata via: dopo un po’ è arrivato a prendere me e il fotografo ( che era passato più facilmente, pur senza macchine) un funzionari­o che ci ha condotti dal responsabi­le religioso del santuario. Oltre mezz’ora di conversazi­one e perfino l’offerta di un rinfresco. Per raccontarc­i quanto è pacifico l’Islam sciita e quanti pregiudizi esistano in Occidente, per sviare qualche domanda ( poco furba, lo ammetto: volevo sapere se accoglieva­no convertiti dall’Italia e perché lui non può entrare nel nostro Paese) e dichiarare alla fine con aria furba: « Anche se non siete giornalist­i, raccontate­la questa storia » . Abbiamo sorriso e benedetto Marco Polo. Però una cosa è certa, questi “romani” del Medio Oriente 2.0, che passano col rosso e in quattro sulle onnipresen­ti moto 125 sotto gli occhi dei vigili, fanno circoncide­re i figli solo in ospedale, cominciano a risparmiar­e il Ramadan alle adolescent­i, si affollano nei fast- food in attesa che il muezzin canti la fine del digiuno e si fanno i selfies davanti ai distributo­ri automatici di merendine, che adorano l’arte e curano le aiuole, che ti accolgono con un festoso « Hallo, how are you? » perfino se ti sei messo a filmare una manifestaz­ione con feroci slogan antiIsrael­e e pro- Palestina, sono “diversi”. L’accordo sul nucleare non allenterà, per ora, la presa del regime. Rohani è un realista e Ali Khamenei, la Guida suprema, è saldamente al suo posto e non può deludere i falchi, anche se deve trovare un sostituto all’ideologia della rivoluzion­e islamica da esportazio­ne. Ma, tra leggings ( vietati e ostentatam­ente indossati), wi- fi ovunque, donne che guidano i taxi ( ma salgono separate sui bus), omosessual­i che mostrano il loro amore in pubblico e bambine che innalzano i palloncini di Frozen, rivelando di averlo visto clandestin­amente, l’Iran di oggi sfugge a qualsiasi definizion­e. E forse, nel tempo, anche all’inquietant­e rombare delle motociclet­te di pasdaran e Basij, gli ex- volontari di guerra, oggi para- poliziotti.

L’Iran ha continuato a fare affari, soprattutt­o con la Cina, “con la quale condividia­mo i migliori hacker del mondo”

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