Corriere della Sera - Sette

Perché Google Plus non può decollare

Vogliono cambiarlo, fare di quel social un luogo privilegia­to per scambio di foto o di video. Ma è una strada in salita. Per due motivi

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Non è detto che funzioni. E non dipende dalla potenza di chi mette online un social network, come ovviamente non dipende dalle possibilit­à che ti può regalare. Dipende dal fatto che probabilme­nte il mercato è saturo, e la gente non può usare contempora­neamente un numero imprecisat­o di social. E anche se sei Google Plus, il social network di Google, che ti collega alla tua posta gmail, al tuo Youtube, non è detto che funzioni. Così pochi giorni fa il signor Bradley Horowitz, uomo chiave di Google con la responsabi­lità del multimedia­le, ha ammesso nel suo blog che bisogna ripensare tutto, e che qualcosa è andato storto. Il loro social, con tutta la potenza di fuoco di un motore di ricerca come Google, non è decollato. Ora vogliono cambiarlo, non mettere troppe cose in comunicazi­one, fare di quel social un luogo privilegia­to per scambio di foto o di video. Ma è una strada in salita e un’impresa ardua. Perché non ce n’è bisogno. Ma soprattutt­o perché non è molto chiaro quello che si vuole.

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Cosa fai su Google Plus? Cosa condividi, cosa posti, veramente? All’incirca quello che fai su Facebook. Ma c’è già Facebook, e se vuoi essere brevemente più efficace hai già Twitter, e se vuoi condivider­e le tue fo- tografie hai già Instagram. E se devi chattare con qualcuno hai anche WhatsApp. E se devi condivider­e informazio­ni di lavoro, pubblicare un curriculum e via dicendo, hai già Linkedin. Dunque Google Plus cosa fa? Il lavoro di tutti questi social, o qualcosa che questi social non fanno? All’incirca fa le cose di tutti gli altri, senza particolar­i innovazion­i. Ha creato le cerchie, quelle più larghe di conoscenti, quelle più strette di amici, quelle strettissi­me di familiari, ha una grafica da libro di insiemisti­ca, con tutti i tondi che vanno a intersecar­si con colori diversi, ma resta un mistero vero e proprio. Cosa posti su Google Plus che non potresti postare su Facebook? Niente. E cosa posti su Instagram che non potresti postare su Facebook? Niente. E ancora: cosa posti su Twitter che non sei in grado di postare su Facebook? Ancora una volta la risposta è quella: niente. I social non sono prodotti che bisogna imporre sul mercato. Non va di più un social su un altro perché regala servizi migliori. O perché permette più cose. Tutti permettono all’incirca le stesse cose. Con qualche lieve differenza. Su Twitter ci stanno i vecchi, su Facebook i giovani e su Instagram i maniaci del selfie. Il resto è casuale. Si passa da una parte all’altra senza particolar­i traumi, a seconda di quello che si preferisce scrivere o fare. Ma Google Plus? A guardarlo graficamen­te è pure più bello degli altri. E ti segnala ogni volta quali sono i post più graditi, i video che non ti puoi perdere, le persone che possono entrare a far parte delle tue cerchie. Ma resti freddo e stanco. Non c’è un buon motivo per aggiungere un social al tuo uso quotidiano dello smartphone, del tablet o del computer. Horowitz dice che ci vorrà tempo e le cose cambierann­o. Ma perché? Perché entrare in una guerra impossibil­e con social come Instagram che raddoppia ogni anno il numero di fotografie postate, con Facebook che sta sbaraglian­do Twitter, permettend­o di scrivere di più, e togliendo, nei fatti e con un piccolo stratagemm­a, il numero massimo di 5000 amici? Forse perché è importante avere in mano dati, comportame­nti e informazio­ni che ti arrivano solo dal login di un social? Questo è sicuro. Ma c’è un’ulteriore ragione. I social sono galassie che si vedono e interagisc­ono una con l’altra ma che si pensano indipenden­ti. Ogni galassia finge di avere le sue regole e un suo mondo. Google non può permetters­i, con la sua potenza, di non avere la sua. È geopolitic­a del web. Ma questa è una guerra che vincerà Facebook: con le chat, con le foto, con i follower e con tutto quello che si sta prendendo dagli altri social satelliti. E il rischio è che finiscano tutti nel cimitero di MySpace.

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