Città media della nostra Penisola
Sembra trascorsa un’era geologica da quando gli italiani andavano a Londra con la guida verde del Touring Club, s’infilavano in Carnaby Street, si sedevano in Piccadilly Circus, cercavano il fumo di Londra (che non c’era) e guardavano dalla parte sbagliata prima d’attraversare la strada. Se arrivavano per lavoro, prendevano tutti casaa a South Kensington, e poi si stupivano di trovarsi la domenica mattina («Luca! Cristina! Anche voi qui?»). Sono passati meno di venticinque anni, invece. La prima migrazione contem poranea è avvenuta all’inizio degli anni 90, in un momento di difficoltà economica in Italia. Poi sono comparsi Internet, i voli low-cost e laa banda larga (con Facebook, Skype e compagnia).i) E la somma dei viaggi e dei traslochi ha creato un esodo. Non siamo quanti i francesi, ma ci stiamo avvicinando. Molti hanno scritto, in questi giorni, che la capitale inglese, con la presenza di 250 mila connazionali, è di fatto la 13a città italiana, dopo Verona. Probabilmente è la 7a, prima di Bologna. Gli italiani che gravitano sulla Greater London potrebbero essere infatti circa 400 mila, come sospettano ambasciata, consolato generale e www.italiansoflondon, da anni un punto di riferimento. Perché quest’incertezza? Semplice: perché gli italiani non si registrano. L’iscrizione all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero, istituita nel 1990), dopo dodici mesi di residenza fuori dall’Italia, è un diritto-dovere del cittadino (art. 6 legge 470/1988). Ma è un obbligo non sanzionato. Andrebbe fatto, in altre parole; ma, se non si fa, non succede niente. All’Aire s’iscrive chi deve chiedere il rilascio di un documento o vuole il rinnovo della patente senza tornare in Italia. Gli altri fanno finta di niente (anche per non perdere l’assistenza sanitaria in patria). Londra non è l’unica città del mondo a mostrare questo fenomeno. Ma è quella che, per numero e attività dei connazionali presenti, tende a somigliare di più a una città della Penisola. A Berlino, Barcellona e New York gli italiani sono più giovani; a Parigi, meno giovani; a Boston, San Francisco e Monaco di Baviera svolgono professioni d’avanguardia. Altrove (Russia, Brasile, Kenya, Thailandia, Caraibi) girano molti avventurosi e parecchi avventurieri. A Londra ci sono tutti e c’è di tutto. Una media città italiana, con gli annessi e connessi. Ci sono le nuove intelligenze, come scrive Fabio Cavalera in queste pagine: dalla medicina all’architettura, dall’arte al marketing, dalla finanza ai servizi digitali. Molti italiani sono apprezzati e inseriti; alcuni sgomitano per esserlo. Imprenditori dalla dubbia solidità, vecchi incantatori di nuovi arrivati, vanitosi assortiti, prestigiatori della finanza in cerca d’affari e visibilità. La combinazione di intimità, intuizione e inciucio, tipica della provincia italiana, s’è trasferita sul Tamigi. Ci sono i ragazzi che cercano lavoro, e quelli che li sfruttano. Tra gli sfruttati c’è di tutto; tra gli sfruttatori, gli italiani se la giocano con gli indigeni e altre nazionalità. Il nuovo arrivato — nessuna conoscenza personale, inglese inesistente — finisce nelle grinfie di personaggi che, in cambio di una somma, promettono alloggio e lavoro. Il primo, spesso, indecoroso. Il secondo, quasi sempre, infimo e malpagato. Un’inchiesta nelle cucine dei ristoranti di Londra? C’è materiale per Charles Dickens. Ci sono i club italiani, le associazioni italiane di ex alunni, le associazioni regionali, le associazioni professionali, le associazioni culturali, talvolta in competizione tra loro. Il faticoso ruolo del sindaco, conteso e invitato dovunque, tocca all’ambasciatore (coraggio, caro Terracciano). I londinesi, assediati dai nuovi arrivi, non sono facilmente accessibili. E i nuovi italiani devono scegliere: trovarsi tra loro e trovarsi con altri stranieri, quasi sempre europei. Nuova demografia, nuova sociologia. Andate a Londra e guardatevi intorno: c’è da imparare.