Pubblicano robaccia per affermare che sono grandi e forti
Certi editori lo fanno per un approccio imperialistico a occupare il mercato. E gli autori? Contano quanto una fiche sul tavolo della roulette
ul numero 25 di “Sette” Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale Bompiani, aveva lanciato una provocazione partendo da una domanda dello scrittore ed editore tedesco Michael Krüger: «Che senso ha fare letteratura in un mondo non letterario?». Sono seguiti interventi di autorevoli protagonisti del mondo dell’editoria, da Giuseppe Russo a Gian Arturo Ferrari, da Emanuele Trevi a Stefano Mauri, a Cesare De Michelis. Ora, sull’argomento, Elisabetta Sgarbi ha ricevuto una mail di Krüger che pubblichiamo con il suo consenso.
SUn paio di settimane fa ho ricevuto i nuovi cataloghi di Random House Germania, quarantasei volumi o giù di lì, il postino è quasi crollato nel portarmeli. Quando ho aperto il pacco, con disgusto, ho avuto l’impressione che il novanta per cento di quei libri non avrebbe mai incontrato lo sguardo di un lettore. Perché persone intelligenti pubblicano tanta robaccia? Sanno che quei libri non saranno mai recensiti, che i librai li ordineranno solo perché Random House ha una grande influenza sul mercato, e che glieli rimanderanno indietro dopo tre mesi. Non è questione di intelligenza, di intuizione, di piacere estetico o di interesse per la letteratura, è solo questione di dover pubblicare un certo numero di libri per dimostrare quanto grande e forte sei. Proprio mentre mi rallegravo di non dover avere a che fare con tutti quei libri inutili, ho letto sul giornale che Random House sta pensando di lanciare una nuova collana di tascabili Penguin, perché Random
House America ha comprato la Penguin e credono perciò sia una buona idea portare la Penguin in Germania. Abbiamo bisogno dei tascabili Penguin? No! Tutti quei classici sono pubblicati a dovere da Insel Verlag, Dtv ( Deutscher Taschenbuch Verlag), Fischer, Rowohlt, Reclam, Suhrkamp, e la letteratura angloamericana contemporanea è pubblicata da un’altra cinquantina di case editrici. Allora perché la Penguin? È un approccio imperialistico a occupare il mercato, questa è l’unica ragione. Ecco tutto. È semplice, se sei ricco abbastanza per comprare libri che sono andati bene in altri Paesi, tradurli e pubblicarli. Ma tutto ciò non ha più niente a che fare con l’editoria. Il nostro mestiere ha 250 anni di storia alle spalle e in questi anni ha combattuto in nome della qualità, della bellezza, delle idee e dello stile. Ora è diventato un enorme business nel quale un manipolo di cosiddetti “player” cerca di chiudere accordi internazionali: agenti, uomini d’affari, uomini di marketing. Giocano con gli autori. E se non ottengono un ritorno sufficiente, se ne devono andare. Per di più, se un piccolo editore impegnato sta facendo un buon lavoro con uno dei suoi autori, puoi essere sicuro che uno dei grandi “player” glielo ruberà. In altre parole, un autore conta quanto una fiche sul tavolo della roulette. Fin qui, tutto chiaro. Visto che non esiste più alcun dibattito sulla qualità, è soprattutto una questione di quantità. “Quanto lo hai pagato?” è la domanda fondamentale a Francoforte, non “quanto è importante questo libro?” Il futuro? Dovremmo sostenere i buoni librai. Sanno esattamente quali dei duemila libri della Random House sono validi, dieci o dodici al massimo. E sono felici di sapere qualcosa in più oltre al titolo di tutti gli altri. E dovremmo sostenere le pagine culturali dei quotidiani che ancora pubblicano recensioni dignitose, e non soltanto pollici in su o in giù. Il resto è il cosiddetto mercato, una sorta di business neodarwinistico. E piccoli editori che sanno ancora leggere un libro, pratica ormai piuttosto inusuale tra il moderno popolo dell’editoria.
Ora l’editoria è diventata un enorme business nel quale un manipolo di cosiddetti player cerca di chiudere accordi internazionali: agenti, uomini d’affari e di marketing