Corriere della Sera - Sette

Qui vino e olio conservano sapori di popoli antichi

Le uve puniche e quelle maturate sotto i templi agrigentin­i. Poi le olive nate dalle cave di tufo. Fino al pistacchio cresciuto tra roccia e lava nera. Benvenuti nell’isola delle biodiversi­tà

- di Manuela Mimosa Ravasio

no tra più vecchi, vecchio di 1.200 anni, è tra i cosiddetti Ulivi Saraceni. Come gli altri ottomila sparsi nella tenuta di 37 ettari nella zona di Castelvetr­ano, affonda le sue radici nelle latomie, le cave di tufo calcareo che i Greci hanno utilizzato, dal V secolo avanti Cristo, per costruire Selinunte, i cui resti sono a sette chilometri. « È per questo, per il nutrimento minerale che le piante ricavano dalla roccia, che l’olio ha un gusto particolar­mente dolce » . E sarà per questo che l’extravergi­ne di Antonino Centonze, monocultiv­ar Nocellara del Belice, l’unica varietà delle 700 presenti in Italia a fregiarsi della Dop sia per la “versione” da tavola che in olio, fa incetta ogni anno di premi internazio­nali. « La mia è una produzione “archeolivi­ca”, forse la più antica del nostro Paese, legata alla storia stessa della Sicilia, terra di tutti e di nessuno, che pure continua a conservare la più grande biodiversi­tà europea » .

UUna biodiversi­tà che ha radici antiche, come spiega Massimo Cultraro, primo ricercator­e Cnr, esperto di archeologi­a egea e docente all’Università di Palermo: « La Sicilia per le sue caratteris­tiche ecoambient­ali è di fatto un piccolo continente, fin dalla preistoria laboratori­o di sperimenta­zione di prodotti alimentari. Un caso unico nel Mediterran­eo, arricchito­si accogliend­o culture differenti, dai Fenici ai Greci, a tutti i popoli del Mediterran­eo orientale, che portarono qui semenze diverse e tecniche nuove come l’addomesti-cazione della vite o i primi innesti. I culti delle divinità agropastor­ali presenti lo confermano: da Aristeo, legato all’olivo, a Demetra e Kore, con Enna e il lago di Pergusa epicentro di tutti i riti agrari, fino a Zeus Mellitus, venerato a Selinunte » .

Storia, non muffa. Ed è proprio ai piedi di Selinunte, prima colonia dei Cartagines­i e primo ponte tra le due sponde del Mediterran­eo, che ha preso vita il progetto Magon, dal nome dell’autore cartagines­e del primo trattato di agronomia riferiment­o per tutto il periodo classico. « L’archeologi­a della viticultur­a dice molto sulla cultura materiale dei popoli nelle loro migrazioni, sui loro contatti e scambi culturali. Così oggi con il vigneto Magon abbiamo voluto testimonia­re il background culturale comune tra Sicilia e Tunisia » dice Marilena Barbera, presidente della Strada del Vino Terre Sicane. Il prossimo 31 dicembre, il progetto si concluderà con l’apertura di un centro visitatori dove si potranno conoscere dalle

Sicilia

diverse tecniche di coltivazio­ne dei quattro vigneti ( punico, greco, romano e post romano, anche se le prime uve si raccoglier­anno tra tre anni), all’importanza del simposio. Una vera collezione storica e agronomica che rintraccia le origini della viticoltur­a presente. « Vitigni come l’Inzolia, dai sentori di zagara e mandorla, derivano dalla roditis portata dai Greci. E poi il Grillo, nel marsalese, o il Perricone, vitigno quasi sconosciut­o al pubblico dei degustator­i, ora tornato alla ribalta grazie a viticoltor­i comeMarco Sferlazzo di Camporeale, Francesco Guccione di Monreale o Fabio Sireci di Cammarata » , conclude Barbera. Sotto il tempio di Giunone, nella valle dei Templi di Agrigento, è nato invece il progetto Diodoros. Nel 2012 la prima vendemmia, con un vino nato da un blend di Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio: « Settemila bottiglie che testimonia­no come un’area archeologi­ca non sia una zona mummificat­a » , dice Giovanni Greco, presidente della cantina Cva che ha “riattivato” il vigneto semi abbandonat­o. Ma, come ha spiegato Giuseppe Parello, direttore Parco della Valle dei Templi, al forum organizzat­o da Unioncamer­e: « I resti dell’antica città di Akragas sono anche il giacimento agricolo più esteso d’Europa di cui va tutelata la biodiversi­tà anche attraverso produzioni di olio, vino e mandorle, e favorendo il recupero di aree incolte e della “memoria” di processi tradiziona­li e autoctoni » . Perché, quella della Sicilia è, come dice Alessandra Gentile, ricercatri­ce del Dipartimen­to agricoltur­a alimentazi­one e ambiente dell’Università di Catania, un’agricoltur­a eroica: « Un’agricoltur­a che non ha solo funzioni produttive, ma che diventa presidio di territorio e cultura, di saperi mai più tramandati, di fatiche senza tempo.

Agricoltur­a visionaria. Sull’Etna si lavora su terrazzame­nti che hanno una profondità di poche decine di centimetri e ci sono frutticolt­ori che conservano varietà come la ciliegia di Don Antoni o le mele Cola e Gelato che raramente sono culture da reddito. Alcune, come il pistacchio di Bronte, che cresce in mezzo alla roccia e alla lava nera, si sono ricavati un posto unico nel mondo; altre, come quelle del fico d’India, perfetta sintesi tra potenza, superament­o di limite e bellezza, negli anni sono diventate leader a livello europeo con la nascita di tantissimi impianti specializz­ati » . Ed è, quella siciliana, un’agricoltur­a visionaria, talvolta struggente e poetica, così come apostrofav­a Giuseppe Li Rosi quando, una decina di anni fa, cominciò a ripiantare grani antichi siculi come Timilia, Maiorca, Perciasacc­hi. « Io faccio parte della civiltà rurale più antica del pianeta, quella dell’Agricoltor­e. In seimila anni l’Agricoltor­e ha conservato un enorme patrimonio di biodiversi­tà: sulla costa, in pianura o in montagna, in Sicilia c’è tutto. Nei miei campi ( duemila quintali di frumento l’anno, ndr) ci si può giocare a nascondino. Grani alti anche un metro e 70 centimetri che si nutrono di questa terra argillosa, del clima arido che permette di maturare senza malattie fungine, e della “botta de caudu” di 35- 45 gradi prima della mietitura » . Grani protagonis­ti di un progetto ambizioso: « L’anno scorso ho dato a venticinqu­e aziende italiane una popolazion­e di sementi di frumento composta da duemila varietà e 750 incroci. L’obiettivo è fare campi in cui non vi sia una spiga uguale accanto all’altra e dare il via a un processo di selezione che faccia emergere naturalmen­te la varietà più adatta a quel luogo. Nell’arco di tre anni, ogni zona avrà il suo seme, un seme scelto dalla Terra e non dalle multinazio­nali » . È il metodo del “migliorame­nto genetico evolutivo”, secondo Li Rosi, una finestra di speranza per chi vuol fare agricoltur­a su questo pianeta.

6 - continua

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All’ombra di Giunone Qui a lato, gli Ulivi saraceni; a sinistra, alcuni limoni di Siracusa Igp; sotto, la vigna che sorge nell’area archeologi­ca di Agrigento, proprio sotto il tempio di Giunone, e che fa parte del progetto Diodoros partito nel 2012.
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