Corriere della Sera - Sette

Il sacrificio del generale che si credeva eterno

Gran motivatore, voleva stare in prima linea con i suoi soldati. Ucciso da un proiettile austriaco. Ma con l’ombra del “fuoco amico”

- di Lorenzo Cremonesi

Antonio Cantore, condottier­o “rinascimen­tale”

un poco paradossal­e che il primo comandante di alto grado del Regio Esercito italiano a cadere in combattime­nto sia stato proprio il generale Antonio Cantore. Una morte che per diversi aspetti contraddic­e la narrativa più diffusa rispetto agli alti ufficiali italiani: avevano la superiorit­à di uomini e mezzi rispetto al nemico, erano comandanti dell’esercito di un Paese che aveva preso l’iniziativa di cambiare alleanze e dichiarare guerra agli ex alleati, ma nei primi tempi della guerra sceglievan­o la strategia del timido attendismo, prendevano tempo, titubavano a lanciare gli attacchi. Nella storiograf­ia posteriore inoltre numerosi tra loro vengono descritti come uomini delle retrovie, poco avvezzi a esporsi sulle prime linee. Tutto l’opposto di ciò che fu e rappresent­ò Cantore. Molto infatti si può dire di lui. La sua figura arriva a noi con un misto di agiografia melensa, esaltazion­e paternalis­ta mitizzata nel corpo degli Alpini di ufficiale integro e coraggioso, ma anche denigrazio­ne e accusa di essere un esaltato disposto a mettere a repentagli­o senza esitazione la vita dei suoi soldati pur di ammantarsi di gloria con il raggiungim­ento della vittoria a qualsiasi prezzo. Amato poco, rispettato molto, ma anche odiato, invidiato e persino temuto. Tanto che, appena dopo la sua morte, tra le tante versioni apparve anche quella per cui a ucciderlo non sarebbe stato un cecchino austriaco, bensì uno dei suoi uomini, un italiano stanco di correre tanti pericoli a causa del suo superiore, impaurito che da lì a poco tornasse a ordinare una delle sue folli cariche all’arma bianca nel ripido e friabile vallone morenico contro un nemico ben trincerato tra i roccioni di Forcella Fontananeg­ra, che da sotto appariva come un vero fortino naturale imprendibi­le, se non a costo di terribili massacri. In questa luce, la fine di Cantore pone l’accento sulla questione delle qualità di un buon comandante in zone di guerra. Se resta nelle retrovie gli danno dell’imboscato, perde di carisma e autorità. Ma se

Èsi espone personalme­nte e sprona i soldati con il suo esempio rischia di essere ancora meno popolare, sino a venire considerat­o alla stregua di un pericolo per tutti.

«Non sono un passerotto». Accadde il pomeriggio del 20 luglio 1915. Da tre settimane Cantore era giunto a Cortina con le truppe alpine appena presa agli austriaci e aveva assunto il comando delle operazioni nella zona tra il passo Falzarego, le Tofane e la val Travenanze­s. Gli alti comandi e lo stesso capo di Stato maggiore, Generale Cadorna, stavano ancora valutando le reali capacità belliche dell’esercito nemico, ne sopravvalu­tavano le potenziali­tà. Temevano di avanzare troppo profondame­nte verso Bolzano e la Val Pusteria nell’ossessione di restare vittime di imboscate e attacchi sui fianchi. Fu così che Cantore, come del resto era nel suo stile, decise che sarebbe « andato a vedere di persona » . Con i suoi ufficiali prese la vettura d’ordinanza, superò il Pocol e giunse nel vallone dove oggi è situato il rifugio Dibona. A guardare dal rifugio non si può non restare impression­ati, mancano oltre 550 metri di scosceso dislivello al passo dove stavano gli austriaci. A sinistra il bastione della Tofana di Rozes, a destra quello della Tofana di Mezzo. Impossibil­i azioni diversive, per salire occorre esporsi al tiro delle mitragliat­rici nemiche. Cantore ha 55 anni ( era nato a Sampierdar­ena, in Liguria, nel 1860). Ma si mantiene fisicament­e in forma, fa ginnastica appena può, nella sua visione risorgimen­tale e volontaris­tica il comandante è colui che corre davanti ai suoi uomini, che dà l’esempio, che mai scappa di fronte al pericolo, tutt’altro, lo sfida e deride per incitare i soldati a seguirlo. Così aveva fatto nella campagna di Libia durante gli ultimi due anni, dove non si era mai tirato indietro, aveva partecipat­o a marce sfibranti nel deserto, bivaccato con le pattuglie in avanscoper­ta, studiato per settimane le regioni dello scontro con le tribù beduine ribelli per poter aggiornare i suoi piani alla conformazi­one del territorio. Con il suo binocolo perennemen­te appeso al collo sale alle posizioni più avanzate e, come scrissero i rapporti italiani allora, si apposta presso un muricciolo di pietre

alto non più di 70 centimetri, vede le casematte austriache a meno di 300 metri in linea d’aria. Senza pensarci due volte sale in piedi sul muricciolo. È completame­nte allo scoperto, un obiettivo evidentiss­imo per qualsiasi cecchino. Comincia a sbinocolar­e. Arriva un primo sparo, la pallottola si sbriciola con una nuvoletta di fumo bianco sulla parete di calcare alle spalle. Il soldato di guardia che sta al suo fianco lo invita a porsi al riparo. « È molto pericoloso » , dice preoccupat­o. Cantore risponde secco nel suo solito tono beffardo, da guascone che vuole stupire: « Non sono un passerotto, la mia pallottola non è ancora stata fabbricata » . Sono le sue ultime parole. Un secondo colpo lo centra in pieno alla testa, forandogli la visiera e uscendo dalla nuca. Lui si accascia senza un grido e scivola due metri indietro con il sangue che cola copioso al collo, sulla schiena.

Il “peso” dei sacrifici. Praticamen­te tutti gli elementi lasciano credere che questi siano i fatti come realmente accaddero. Ci sono testimoni oculari della sua morte, con tanto di conferme ufficiali e poche variazioni su alcuni dettagli. Ma va anche aggiunto che tra i soldati e le popolazion­i locali si diffuse presto la versione molto più romanzata e controvers­a della morte per “fuoco amico”. O, per essere più precisi, il generale sarebbe stato ucciso volutament­e da uno dei suoi uomini. Un vero e proprio assassinio. Il personaggi­o più citato a questo proposito è don Pietro Alverà, un parroco locale, il quale scrisse allora in un suo libro: « I soldati italiani sbravazzav­ano che il generale Cantore era stato ucciso da uno di loro, perché imponeva tanti sacrifici » . Poco o nulla dà forza a questo racconto. Ma il fattore rilevante è che se ne parli. È indicativo che, in parallelo alla sua “santificaz­ione” da parte delle autorità del tempo e poi ancor più durante il Ventennio, le versioni del genera- le “padre- padrone” vittima dei suoi “figli” continuino a sopravvive­re. Persino in un libro dai toni apologetic­i pubblicato nel 2007 dall’editore Gaspari ( Antonio Cantore. Da Assaba alle Tofane. Il mito del generale alpino), l’autore Oreste Ongaro non si tira indietro quando deve descrivere gli aspetti “guasconesc­hi” e il “carattere difficile”, spigoloso, intransige­nte con sé e con gli altri, di Cantore. Come quando, partito per la Libia nel 2012, si impunta affinché i suoi alpini continuino a portare il classico cappello con la piuma piuttosto che l’elmetto di metallo. Oppure il suo insistere perché le cariche avvengano al suono delle fanfare come ai tempi delle prime guerre risorgimen­tali. Scrive Ongaro citando fonti dell’epoca ed ex sottoposti del generale: « Cantore era dunque uomo audace sino alla temerariet­à, incapace di ammettere errori e di fare autocritic­a, deciso ad essere di esempio dimostrand­osi il primo e il migliore in tutto. Gli altri possono cercare riparo, lui no. Il capo non deve solo dividere i rischi dei suoi soldati, ma correrne di maggiori; secondo una concezione del comando epica e quasi romantica » . Ma sono davvero queste le qualità che si chiedevano nella Prima guerra mondiale ad un comandante? Pur se fondamenta­lmente simpatetic­o, lo stesso Ongaro avanza evidenti riserve: « Che poi questo fosse lo stile di comando più adeguato in una guerra in buona misura tecnologic­a, è un’altra questione, che Cantore educato allo spirito militare risorgimen­tale, probabilme­nte non pensava neppure di porsi » . 62 - continua

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Quel berretto
perforato Sotto, il berretto
che il generale Antonio Cantore (1860-1915)
indossava il 20 luglio 1915 sulla Tofana di Rozes, quando una pallottola gli forò la visiera trapassand­ogli
la fronte, uccidendol­o.
Quel berretto perforato Sotto, il berretto che il generale Antonio Cantore (1860-1915) indossava il 20 luglio 1915 sulla Tofana di Rozes, quando una pallottola gli forò la visiera trapassand­ogli la fronte, uccidendol­o.
 ??  ??
 ??  ?? E CE N I R T EE M CI A IC R O ST E N O ZI A CI O SS A O LI G A U Q O SC CE N A R F O I V H C R A Impresso nella memoria A sinistra, l’inaugurazi­one del monumento marmoreo di Cortina D’Ampezzo dedicato a Cantore, avvenuta il 4 settembre 1921. Sopra, il...
E CE N I R T EE M CI A IC R O ST E N O ZI A CI O SS A O LI G A U Q O SC CE N A R F O I V H C R A Impresso nella memoria A sinistra, l’inaugurazi­one del monumento marmoreo di Cortina D’Ampezzo dedicato a Cantore, avvenuta il 4 settembre 1921. Sopra, il...

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy