Il sacrificio del generale che si credeva eterno
Gran motivatore, voleva stare in prima linea con i suoi soldati. Ucciso da un proiettile austriaco. Ma con l’ombra del “fuoco amico”
Antonio Cantore, condottiero “rinascimentale”
un poco paradossale che il primo comandante di alto grado del Regio Esercito italiano a cadere in combattimento sia stato proprio il generale Antonio Cantore. Una morte che per diversi aspetti contraddice la narrativa più diffusa rispetto agli alti ufficiali italiani: avevano la superiorità di uomini e mezzi rispetto al nemico, erano comandanti dell’esercito di un Paese che aveva preso l’iniziativa di cambiare alleanze e dichiarare guerra agli ex alleati, ma nei primi tempi della guerra sceglievano la strategia del timido attendismo, prendevano tempo, titubavano a lanciare gli attacchi. Nella storiografia posteriore inoltre numerosi tra loro vengono descritti come uomini delle retrovie, poco avvezzi a esporsi sulle prime linee. Tutto l’opposto di ciò che fu e rappresentò Cantore. Molto infatti si può dire di lui. La sua figura arriva a noi con un misto di agiografia melensa, esaltazione paternalista mitizzata nel corpo degli Alpini di ufficiale integro e coraggioso, ma anche denigrazione e accusa di essere un esaltato disposto a mettere a repentaglio senza esitazione la vita dei suoi soldati pur di ammantarsi di gloria con il raggiungimento della vittoria a qualsiasi prezzo. Amato poco, rispettato molto, ma anche odiato, invidiato e persino temuto. Tanto che, appena dopo la sua morte, tra le tante versioni apparve anche quella per cui a ucciderlo non sarebbe stato un cecchino austriaco, bensì uno dei suoi uomini, un italiano stanco di correre tanti pericoli a causa del suo superiore, impaurito che da lì a poco tornasse a ordinare una delle sue folli cariche all’arma bianca nel ripido e friabile vallone morenico contro un nemico ben trincerato tra i roccioni di Forcella Fontananegra, che da sotto appariva come un vero fortino naturale imprendibile, se non a costo di terribili massacri. In questa luce, la fine di Cantore pone l’accento sulla questione delle qualità di un buon comandante in zone di guerra. Se resta nelle retrovie gli danno dell’imboscato, perde di carisma e autorità. Ma se
Èsi espone personalmente e sprona i soldati con il suo esempio rischia di essere ancora meno popolare, sino a venire considerato alla stregua di un pericolo per tutti.
«Non sono un passerotto». Accadde il pomeriggio del 20 luglio 1915. Da tre settimane Cantore era giunto a Cortina con le truppe alpine appena presa agli austriaci e aveva assunto il comando delle operazioni nella zona tra il passo Falzarego, le Tofane e la val Travenanzes. Gli alti comandi e lo stesso capo di Stato maggiore, Generale Cadorna, stavano ancora valutando le reali capacità belliche dell’esercito nemico, ne sopravvalutavano le potenzialità. Temevano di avanzare troppo profondamente verso Bolzano e la Val Pusteria nell’ossessione di restare vittime di imboscate e attacchi sui fianchi. Fu così che Cantore, come del resto era nel suo stile, decise che sarebbe « andato a vedere di persona » . Con i suoi ufficiali prese la vettura d’ordinanza, superò il Pocol e giunse nel vallone dove oggi è situato il rifugio Dibona. A guardare dal rifugio non si può non restare impressionati, mancano oltre 550 metri di scosceso dislivello al passo dove stavano gli austriaci. A sinistra il bastione della Tofana di Rozes, a destra quello della Tofana di Mezzo. Impossibili azioni diversive, per salire occorre esporsi al tiro delle mitragliatrici nemiche. Cantore ha 55 anni ( era nato a Sampierdarena, in Liguria, nel 1860). Ma si mantiene fisicamente in forma, fa ginnastica appena può, nella sua visione risorgimentale e volontaristica il comandante è colui che corre davanti ai suoi uomini, che dà l’esempio, che mai scappa di fronte al pericolo, tutt’altro, lo sfida e deride per incitare i soldati a seguirlo. Così aveva fatto nella campagna di Libia durante gli ultimi due anni, dove non si era mai tirato indietro, aveva partecipato a marce sfibranti nel deserto, bivaccato con le pattuglie in avanscoperta, studiato per settimane le regioni dello scontro con le tribù beduine ribelli per poter aggiornare i suoi piani alla conformazione del territorio. Con il suo binocolo perennemente appeso al collo sale alle posizioni più avanzate e, come scrissero i rapporti italiani allora, si apposta presso un muricciolo di pietre
alto non più di 70 centimetri, vede le casematte austriache a meno di 300 metri in linea d’aria. Senza pensarci due volte sale in piedi sul muricciolo. È completamente allo scoperto, un obiettivo evidentissimo per qualsiasi cecchino. Comincia a sbinocolare. Arriva un primo sparo, la pallottola si sbriciola con una nuvoletta di fumo bianco sulla parete di calcare alle spalle. Il soldato di guardia che sta al suo fianco lo invita a porsi al riparo. « È molto pericoloso » , dice preoccupato. Cantore risponde secco nel suo solito tono beffardo, da guascone che vuole stupire: « Non sono un passerotto, la mia pallottola non è ancora stata fabbricata » . Sono le sue ultime parole. Un secondo colpo lo centra in pieno alla testa, forandogli la visiera e uscendo dalla nuca. Lui si accascia senza un grido e scivola due metri indietro con il sangue che cola copioso al collo, sulla schiena.
Il “peso” dei sacrifici. Praticamente tutti gli elementi lasciano credere che questi siano i fatti come realmente accaddero. Ci sono testimoni oculari della sua morte, con tanto di conferme ufficiali e poche variazioni su alcuni dettagli. Ma va anche aggiunto che tra i soldati e le popolazioni locali si diffuse presto la versione molto più romanzata e controversa della morte per “fuoco amico”. O, per essere più precisi, il generale sarebbe stato ucciso volutamente da uno dei suoi uomini. Un vero e proprio assassinio. Il personaggio più citato a questo proposito è don Pietro Alverà, un parroco locale, il quale scrisse allora in un suo libro: « I soldati italiani sbravazzavano che il generale Cantore era stato ucciso da uno di loro, perché imponeva tanti sacrifici » . Poco o nulla dà forza a questo racconto. Ma il fattore rilevante è che se ne parli. È indicativo che, in parallelo alla sua “santificazione” da parte delle autorità del tempo e poi ancor più durante il Ventennio, le versioni del genera- le “padre- padrone” vittima dei suoi “figli” continuino a sopravvivere. Persino in un libro dai toni apologetici pubblicato nel 2007 dall’editore Gaspari ( Antonio Cantore. Da Assaba alle Tofane. Il mito del generale alpino), l’autore Oreste Ongaro non si tira indietro quando deve descrivere gli aspetti “guasconeschi” e il “carattere difficile”, spigoloso, intransigente con sé e con gli altri, di Cantore. Come quando, partito per la Libia nel 2012, si impunta affinché i suoi alpini continuino a portare il classico cappello con la piuma piuttosto che l’elmetto di metallo. Oppure il suo insistere perché le cariche avvengano al suono delle fanfare come ai tempi delle prime guerre risorgimentali. Scrive Ongaro citando fonti dell’epoca ed ex sottoposti del generale: « Cantore era dunque uomo audace sino alla temerarietà, incapace di ammettere errori e di fare autocritica, deciso ad essere di esempio dimostrandosi il primo e il migliore in tutto. Gli altri possono cercare riparo, lui no. Il capo non deve solo dividere i rischi dei suoi soldati, ma correrne di maggiori; secondo una concezione del comando epica e quasi romantica » . Ma sono davvero queste le qualità che si chiedevano nella Prima guerra mondiale ad un comandante? Pur se fondamentalmente simpatetico, lo stesso Ongaro avanza evidenti riserve: « Che poi questo fosse lo stile di comando più adeguato in una guerra in buona misura tecnologica, è un’altra questione, che Cantore educato allo spirito militare risorgimentale, probabilmente non pensava neppure di porsi » . 62 - continua