Provincialismo alla rovescia
Pare che Twitter abbia i giorni contati. In Borsa, a New York, gli starebbero dando l’estrema unzione togliendogli, giorno dopo giorno, un po’ di valore. No so se rallegrarmi o preoccuparmi. Dicono sia stata la levatrice delle Primavere arabe: entusiasmo, sogni, speranze. È finita male: qualcosa di più grande, imprevedibile, immensamente malvagio ha preso il sopravvento nel Maghreb. In modo virtuale, un deragliamento si sarebbe verificato anche per Twitter e i suoi fratelli, almeno secondo Umberto Eco, certo non un nativo digitale ma, fin dagli albori, incuriosito dalle potenzialità della Rete. Lo scrittore italiano più famoso nel mondo ha dichiarato, riferendosi ai social media: « Danno diritto di parola a legioni di imbecilli » . Non solo, visto che ne fanno uso anche persone intelligenti. Però è difficile dare completamente torto a Eco. Un pulpito da cui si possano esprimere anche gli imbecilli non sarebbe un dramma, se non finissero per prevalere. Un segnale forte, dunque, era necessario. Ma chi sta decretando il declino di Twitter non è animato damotivi etici, educativi o democratici, bensì dal fatto che si sta infiacchendo e promette poco in termini di “spionaggio” delle nostre vite per sfruttamento commerciale. Il passaggio successivo sarebbe l’assorbimento in Facebook, ovvero un’ulteriore riduzione della concorrenza in Rete. L’ipotetico luogo delle libertà si sta trasformando nel regno di monopolisti che guadagnano vendendo brandelli delle nostre vite: un mondo costruito su misura per imbecilli che si esprimono a slogan, purché comprino. A questo punto, sarebbe interessante definire il prototipo dell’imbecille 3.0. Ho una proposta: è colui che, se gli dimostri che sta dicendo cose insensate, ti risponde: « Io dico quello che penso » . Il problema è che non pensa quello che dice, ovvero non riflette, perché i ragionamenti strappano pochi like. Bisogna riconoscere, comunque, che le parole in libertà non sono monopolio del web. Ne è piena la tv e non ne è immune la carta stampata. Nei mesi scorsi, ho letto almeno una decina di articoli con un insopportabile birignao nei confronti dell’inglese di Matteo Renzi, fino al punto di azzardare che senza un accento oxfordiano non si dovrebbe permettere a un politico di ascendere a Palazzo Chigi. Da noi, ai premier, dopo una breve luna di miele si applica sempre l’orribile proverbio cinese: « Quando torni a casa, picchia tua moglie, lei sa perché » . Ma, almeno in questo caso, Renzi va difeso. Il presidente del Consiglio è nominato per governare e risolvere i problemi del Paese, non per migliorare il suo accento in una lingua straniera, sia pure l’internazionale inglese. In occasioni ufficiali, il premier e il presidente della Repubblica devono sempre parlare l’italiano e servirsi di sherpa diplomatici per le traduzioni. Sono loro i rappresentanti e i custodi della nostra cultura e della nostra identità. Che l’inglese sia uno strumento da cui non si può più prescindere è sacrosanto, ma è una verità che non ha nulla a che vedere con il provincialismo alla rovescia.
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