Obama alla riscossa
Sembrava un presidente debole. Invece, con l’accordo sul nucleare, la riconciliazione con Cuba e la svolta energetica, ha ribaltato i giudizi
Un sondaggio internazionale dedicato al grado di popolarità del presidente Obama e del presidente Putin ha dimostrato che, in tutte le parti del mondo ad eccezione del Medio Oriente, Obama riscuote un successo quasi unanime. Alla lista dei Paesi possiamo aggiungere, seppur con dati meno roboanti, gli Stati Uniti, in cui, dopo un momento di flessione, il presidente ha ritrovato un sostegno maggioritario. In fondo questo giudizio della vox populi è giusto. Eppure fino a poco tempo fa, si aveva la tendenza a considerare Obama un presidente debole, che al momento della sua elezione aveva suscitato grandi speranze, rapidamente spazzate via dalla prova dei fatti. Delusione che però non ne ha impedito la conferma per un secondo mandato. Al di fuori degli Stati Uniti Obama è stato spesso paragonato a un suo predecessore democratico, noto per la scarsa incisività: Jimmy Carter. In questione c’era la nuova strategia americana, quella “leadership from behind”, considerata un modo per mascherare un ripiegamento volto a soddisfare il desiderio isolazionista di un’opinione pubblica vaccinata contro l’interventismo dal fiasco strategico e umano rappresentato dalla guerra in Iraq. Oltretutto non era difficile stilare la lista degli errori e dei fallimenti della politica estera di Obama: dal sostegno controproducente ai Fratelli Musulmani in Egitto, al rifiuto all’ultimo momento di attaccare la Siria di Assad quando quest’ultimo era indebolito, dal completo fallimento dei negoziati fra israeliani e palestinesi al ritiro affrettato dall’Iraq, che ha permesso all’Isis di dispiegarsi con grande rapidità sul territorio. Senza dimenticare poi il pessimo trattamento riservato agli alleati con lo spionaggio su tutti i fronti da parte della Nsa. Eppure, guardando alla fine del suo mandato, il giudizio cambia radicalmente. In primo luogo per l’accordo sul nucleare iraniano, occasione per Obama di far valere la sua preferenza per una diplomazia attiva a discapito dell’interventismo militare. L’argomentazione che ha sostenuto davanti a un Congresso a maggioranza repubblicana è stata semplice: se non ratificate questo accordo, ci sarà “una sorta di guerra” con l’Iran. Obama non ha dimenticato di essere stato eletto per far rientrare in patria i corpi di spedizione in Afghanistan e in Iraq, e per ribaltare la logica di guerra che ha avuto la meglio dall’ 11 settembre 2001.
ORIENTAMENTO STRATEGICO. Fra le cose fatte, resterà anche l’altrettanto storica riconciliazione con Cuba, fondamentale per tutta l’America latina. E ancor di più il nuovo orientamento strategico degli Stati Uniti verso la zona Asia- Pacifico. Il fulcro di questo asse è stato un accordo di libero scambio con undici Paesi della regione ( il Partenariato Trans- Pacifico) volto a contra- stare la potenza cinese. I Paesi della regione chiedono infatti agli Stati Uniti di fare da contraltare a una Cina sempre più nazionalista. E per finire, c’è la grande svolta nella politica energetica americana, in prospettiva del vertice di Parigi di fine anno dedicato al riscaldamento climatico. Parlando della “più grande iniziativa mai intrapresa per la lotta al cambiamento climatico” Obama spinge di certo sul tasto dell’enfasi, ma è vero che il suo progetto di Clean Power Act è il primo a programmare un’importante riduzione della produzione di gas a effetto serra, a danno dell’industria del carbone. E non dimentichiamo che durante la sua presidenza gli Stati Uniti sono diventati indipendenti dal punto di vista energetico, e sono assurti a leader mondiali del settore. Per quanto riguarda il fronte interno, più di un presidente avrebbe sognato le sue conquiste. Perché il Paese è uscito con rinnovata forza dalla crisi che gli stessi Stati Uniti avevano generato nel 2007- 2008: la crescita è tornata, il tasso di disoccupazione è bassissimo, e il tutto è accompagnato da una grande riforma sociale: la “ObamaCare”, che nonostante i detrattori e ogni sorta di lobby è ormai legge. La grande pecca è il livello allucinante, agli occhi degli europei, raggiunto dalla disuguaglianza e dalle differenze salariali. Aggiungiamo un elemento psicologico: è impressionante vedere quanto, a questo punto del mandato, Obama sembra liberato, tornato se stesso, di nuovo pronto a prendere iniziative e a difendere appassionatamente le cause che gli stanno a cuore. Sfida la maggioranza repubblicana e facilita al tempo stesso la campagna di colei che vuole prendere il suo posto fra i democratici, Hillary Clinton. È una lezione su cui riflettere: non c’è nulla di simile a un presidente libero di agire perché non deve battersi per la propria rielezione.