Corriere della Sera - Sette

Narrazioni ingannevol­i

Ai tempi dei social network, tutti hanno bisogno di raccontare “grandi storie” e non quello che accade. Ma così ci si allontana dalla verità

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Era solo una questione di tempo. All’inizio i segnali erano timidi, riservati a pochi. All’inizio le storie si raccontava­no nei romanzi o nei film. La narrazione non era una verità, la storia raccontata non rifletteva quello che era accaduto, se era accaduto. Ma era una costruzion­e per nulla ingenua, affatto innocente, di una vicenda che conteneva tutta una serie di suggestion­i, di possibilit­à, chiariva le cose del mondo, e allo stesso tempo le complicava. Joseph Conrad raccontava storie inventate, ma poi Linea d’ombra o Cuore di tenebra te li porti addosso per sempre. Sono pochi quelli che credono ai fantasmi, ma siamo disposti a giurare che quelli di Giro di vite di Henry James siano del tutto autentici. Magari sono i nostri fantasmi, quelli da cui è difficile liberarsi. Ma non ci importa niente che Conrad o James raccontino grandi storie. Ci importa che il loro racconto si faccia strumento, possibilit­à per il nostro futuro, per la nostra evoluzione. Così è la letteratur­a, così sono le storie. Solo che le storie, appannaggi­o della letteratur­a, degli scrittori di racconti, di alcuni giornalist­i con un particolar­e talento, sono diventate, nell’era della letteratur­a globale, delle “grandi” storie. E il fatto che siano grandi è in realtà un diminutivo. Oltre che un pericolosi­ssimo inganno. Come Photoshop ha reso le foto ambigue e ha generato diffidenza nei confronti della verità delle immagini. Le grandi storie dovrebbero generare diffiden- za nei lettori. Ma non accade. Perché non c’è ancora consapevol­ezza dell’inganno. Ormai tutti hanno bisogno di raccontare grandi storie, e non quello che accade. Non parlo solo dei giornali. Parlo anche dei post sui social, dei blog, delle Ted Conference, e persino dei racconti a una cena, o a una riunione. La differenza tra una storia e una grande storia è tutta nel bisogno continuo e assoluto di sceneggiar­e, di aggiungere, di mettere dettagli che nessuno ha mai visto, ma che sono verosimili, che ci starebbero bene, anzi che illuminano quello che stiamo dicendo, che sono certo falsi, ma a loro modo sono veri.

PROCEDURA PERICOLOSA. L’esempio più lampante di questi anni sono le fiction o le serie sugli eventi storici recenti. Partono da personaggi reali e da storie accadute, che però hanno bisogno di sottostori­e, di rivoli laterali. Così nella serie su Mani pulite c’è Di Pietro, c’è Colombo e poi c’è il leghista mai esistito, o il manager di Publitalia che non si ispira a nessuno. Mettere assieme il vero e il falso, intreccian­doli in modo che la matassa non possa sciogliers­i è una procedura pericolosa. Perché dice soprattutt­o una cosa. Quando qualcuno vuole raccontart­i una grande storia ti sta raccontand­o una storia, ovvero ti sta ingannando. I giornali e il web sono ormai drogati di grandi storie, di racconti che aggiungono, che insistono su dettagli impossibil­i, che cercano il ritmo, l’incedere delle narrazioni più accattivan­ti. La storia semplice non interessa più a nessuno. Le regole dello storytelli­ng applicate alla vita quotidiana, sono la conseguenz­a di un mondo eternament­e bambino. Un mondo che ci vuole tutti uguali, e tutti meraviglia­ti da racconti e narrazioni. Non quelle dei libri di Conrad, con cui impari a evolvere e a crescere, ma quelle che servono a lasciarti sempre uguale a te stesso. Le persone, le aziende, le multinazio­nali che ci profilano sui social, per capire chi siamo, cosa ci piace, e cosa compriamo, non vogliono che cresciamo e non hanno alcun interesse a farci cambiare. Perché se noi cambiamo loro devono ricomincia­re tutto tutto da capo. Ci vogliono con le grandi storie, con i grandi inganni, con una meraviglia identica a se stessa dettata dalle regolette dell’intratteni­mento narrativo, ci vogliono meraviglia­ti con poco. Lontani da qualsiasi verità che possa finire per cambiarci. Perché le verità quasi sempre sono semplici e noiose. Donald Sutherland nel film Jfk di Oliver Stone interpreta un ex agente della Cia che incontra il procurator­e Garrison ( Kevin Costner), l’uomo che sta indagando sull’assassinio del presidente Kennedy. E incitandol­o a continuare nella sua inchiesta, gli dice: « Si ricordi che fondamenta­lmente la gente ha un debole per la verità » . Forse era così allora, alla fine degli anni Sessanta, oggi la gente ha solo un banalissim­o debole per le grandi storie e per le fiction.

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