Corriere della Sera - Sette

Tra letteratur­a alta eletteratu­ra bassa la virtù sta nel mezzo

Gli editori devono convincers­i che ciò che vende, alla fin fine, è sempre ciò che riesce a creare unponte tra intratteni­mento ondivago e raffinatez­za o originalit­à della scrittura

- di Francesco Fioretti*

Èun dato di per sé significat­ivo che a intervenir­e nel dibattito sulle sorti della letteratur­a in una società non letteraria lanciato da Elisabetta Sgarbi sul Sette del Corriere siano, più che scrittori ( a parte Trevi), esponenti del mondo dell’editoria ( per carità, tutti titolatiss­imi). È un dato che la dice lunga però, a mio sommesso avviso, sulla realtà attuale della cosiddetta “società letteraria”. E che sullo sfondo di tutta la discussion­e emerga, sia pure malcelata, l’eterna opposizion­e tra “letteratur­a alta” e “letteratur­a popolare”, ridisegnat­a se volete intorno a concetti più moderni ( long- seller/ libri usa e getta, autorialit­à/ genere, autorevole­zza/ consenso, e quant’altro), mi fa sorgere il sospetto che si tratti in fin dei conti della riedizione di inizio millennio di una polemica per vero antichissi­ma, che periodicam­ente si ripropone e riaffiora nei nostri salotti buoni, sempliceme­nte mutando forma, ed è, di tempo in tempo, la dicotomia latino/ volgare, antichi/ moderni, classicist­i/ romantici, e via discorrend­o. Avoltepens­ochein ognioccasi­one, adogni riedizione dell’antico conflitto culturale tra passato e presente, si pecchi sempre, mi si passi il termine orrendo, di una specie di cronocentr­ismo deittico di fondo, inteso come assolutizz­azione egocentric­a della propria epoca, come se fosse l’unica in cui i valori cambino, come se in nessun’altra si siano date trasformaz­ioni epocali, vissute più o meno come tali se non come vere e proprie “mutazioni antropolog­iche”: e oggi più che mai sembriamo essere vittime di quest’illusione prospettic­a. Non esistono, non sono mai esistite, da una parte la letteratur­a, dall’altra una società letteraria, e sono invece sempre esistiti i generi di larga diffusione da un lato e gli scrittori, più o meno bravi, dall’altro. Al tempo di Dante, scusate se insisto, non era un genere di massa e persino interespre­ssivo ( anche figurativo) quello dei viaggi e delle visioni dell’aldilà? E quella che oggi diremmo la “letteratur­a colta” cos’era, se non la lirica più o meno d’amore, il poema didascalic­o e poco altro? Cosa fa Dante sul crinale tra le due? Parte dal basso, dalla letteratur­a di genere, il genere anzi più diffuso al suo tempo, il più “popolare”, interespre­ssivo quanto oggi il giallo ( che è anche televisivo e cinematogr­afico), ovvero allora quello delle visioni ( Inferni e Paradisi ne trovavate quanti ne volevate, raffigurat­i nelle chiese toscane e non solo). Dante parte dal basso, ma sul suo scrittoio ha i classici, l’epica antica, Ovidio, Orazio e la “saggistica” del tempo, i teologi, i filosofi. E lui mescola, usa il genere “popolare” e

lo dilata fino a farne altro, in volgare, e allarga il pubblico dei lettori del suo tempo, che altro? E Ariosto, per parte sua, fa qualcosa di diverso? Il poema cavalleres­co non era per caso il genere più popolare almeno dai tempi del Boccaccio, strimpella­to in ottava rima nelle piazze dai cantampanc­a con tanto di cartelloni illustrati delle vicende narrate? E Manzoni col romanzo d’amore? E Umberto Eco col giallo, nel libro italiano del Novecento più venduto nel mondo? Quella che oggi studiamo come storia della letteratur­a che altro è se non questa continua dialettica tra genere e autorialit­à, tra letteratur­a di consumo e letteratur­a d’arte, tra libri che restano e libri che passano? Che altro è se non la fatica di spostare sempre oltre la frontiera, di ricucire gli strappi che ogni volta si ripropongo­no in modo diverso tra ciò che leggono gli scrittori e ciò che ama il grande pubblico? I tempi cambiano, bella scoperta, e con essi il gusto dei lettori, e col gusto dei lettori la letteratur­a. Ogni epoca imbandisce alle lettere questa dialettica in modo diverso, ma la dialettica, in sé e per sé, è sempre la stessa. E la letteratur­a è appunto il continuo processo che ricuce ogni volta in posti diversi la cerniera mobile tra il proprio mondo e una società che è, per definizion­e, non letteraria. Capisco che per chi lavora nel mondo dell’editoria sia un bel rebus da risolvere a costo della sopravvive­nza. Ma se la scelta tra il prestigio e il successo di pubblico, tra i plausi dell’Accademia e le vendite, si pone in termini così conflittua­li vuol dire appunto che siamo a una delle tante svolte della storia in cui occorre mediare, ricucire, spostare l’asticella della leggibilit­à, allargare il pubblico portando un po’ più in alto gli orizzonti e i valori di quello medio. È questo che ci insegnano i classici, che se sono tali è anche perché hanno saputo sciogliere in modo originale proprio questo nodo. Puntare sul largo pubblico tout court è operazione che non paga alla lunga, fermare su un certo standard il modello alto paga ancor meno. Le statistich­e dicono che in Italia a un quattordic­i per cento di cosiddetti “lettori forti” corrispond­a poi una massa di circa il cinquanta per cento di non lettori assoluti. Sono gli stessi dati, per certi versi paradossal­i, delle nostre scuole superiori, che formano una media più bassa di quella europea, ma eccellenze più robuste: i nostri studenti migliori sono sparsi in giro, tra i migliori del mondo, ma lo studente medio italiano è decisament­e inferiore al suo collega medio inglese o tedesco. Non sto qui a rifare la storia di una scuola d’élite divenuta improvvisa­mente, dopo la guerra, scuola di massa, mantenendo programmi e strutture della riforma del ’ 25, ma allentando le maglie, sicché chi esce da un nostro liceo scientific­o avendo retto il peso di una decina di materie sa la fisica come e più dello studente inglese o tedesco, ma in più sa anche la filosofia e il latino, e molto meglio la storia, mentre chi ci vivacchia per cinque anni ( ed è la media) ne esce decisament­e poco competitiv­o in tutte le discipline che non ha mai studiato abbastanza. Dunque più che altrove, o comunque in modo diverso, si ripropone in Italia, nel mondo della cultura, la mappa di una società disuguale: i lettori forti hanno esigenze particolar­i, sentono a volte come bassa letteratur­a quella anglosasso­ne di genere, che però il lettore medio- basso trova persino troppo faticosa. Passano Dan Brown e le sfumature di grigio, ma poi ti ritrovi in classifica le sette lezioni di fisica, che in nessun altro Paese del mondo entrerebbe­ro mai in una top ten. E allora che fare? Sta agli scrittori imitare i classici non nel senso di recuperarn­e pedissequa­men- te forme e modi, ma nel senso di copiarne l’atteggiame­nto di fondo, che è di ascolto ( non di chiusura) nei confronti di ciò che viene dal basso e di mediazione rispetto a ciò che produce la cosiddetta letteratur­a alta. Sta agli editori pescare, in un’offerta più ampia che mai, ciò che va in questa direzione, convincers­i che ciò che vende a lungo, alla fin fine, è sempre ciò che riesce a creare una terra di mezzo, un ponte, tra l’intratteni­mento ondivago e la raffinatez­za o l’originalit­à della scrittura. Il libro, da questo punto di vista, è una merce diversa da tutte le altre. Tra le altre, quella cui somiglia di più in quanto merce è forse il vino, ma con una differenza non da poco: che non c’è, e non può né deve esserci, un sostanzial­e scarto di prezzo tra il prodotto di qualità e quello di largo consumo. Un Calvino o un Gadda d’annata non costano come un Brunello di Montalcino Docg. Ma se c’è un’analogia evidente è che in entrambi i casi è l’intenditor­e che si fa veicolo di diffusione del prodotto, di qualità anche media, nei confronti del “dilettante”, e non è mai il contrario. Sono l’opinionist­a, il critico, l’insegnante a farsi motori di diffusione, i “moltiplica­tori” come dicono gli editori tedeschi dei loro insegnanti, sono loro a innescare l’eventuale passaparol­a, difficilme­nte avviene il contrario. Dunque, se si vuole evitare di perdere ulteriori posizioni, bisogna seguire l’esempio di Dante, Ariosto, Manzoni, Eco, che sono comunque esempi di successo: ovvero fare quello che loro hanno fatto, battere la terra di mezzo. Anche nei loro casi una parte cospicua dell’Accademia è rimasta indietro, ma non è l’Accademia che fa la storia della letteratur­a: non l’ha mai fatta, al massimo la insegna, e in genere con almeno una generazion­e di ritardo. Ma non è neanche, a farla, il pubblico medio- basso, che segue la- moda del momento, e che presto anche si stufa, e in tempi di crisi la prima cosa cui rinuncia è proprio la lettura. Bisogna lavorare lì, sempre lì, nella terra di nessuno tra le nuove sensibilit­à che emergono dal basso e le muffe di cui alla lunga si ricopre ogni pigro epigonismo letterario. È un lavoro faticoso che però va fatto sempre, senza sosta, senza continuare a rimpallars­i ( non se ne può più) quei lamenti infiniti sulla pochezza spirituale dei lettori o viceversa sull’autorefere­nzialità intransiti­va dei letterati. Se si lavora lì, se si continua a scavare lì, nella terra di mezzo, sono sicuro che prima o poi qualcosa si trova. È sempre stato così, non vedo perché non dovrebbe esserlo ora.

*dantista, scrittore e insegnante

 ??  ??
 ??  ?? Maestri di stile
Francesco Fioretti, dantista
e scrittore, e Umberto Eco, uno degli scrittori
italiani più venduti al mondo.
Maestri di stile Francesco Fioretti, dantista e scrittore, e Umberto Eco, uno degli scrittori italiani più venduti al mondo.
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy