Tra letteratura alta eletteratura bassa la virtù sta nel mezzo
Gli editori devono convincersi che ciò che vende, alla fin fine, è sempre ciò che riesce a creare unponte tra intrattenimento ondivago e raffinatezza o originalità della scrittura
Èun dato di per sé significativo che a intervenire nel dibattito sulle sorti della letteratura in una società non letteraria lanciato da Elisabetta Sgarbi sul Sette del Corriere siano, più che scrittori ( a parte Trevi), esponenti del mondo dell’editoria ( per carità, tutti titolatissimi). È un dato che la dice lunga però, a mio sommesso avviso, sulla realtà attuale della cosiddetta “società letteraria”. E che sullo sfondo di tutta la discussione emerga, sia pure malcelata, l’eterna opposizione tra “letteratura alta” e “letteratura popolare”, ridisegnata se volete intorno a concetti più moderni ( long- seller/ libri usa e getta, autorialità/ genere, autorevolezza/ consenso, e quant’altro), mi fa sorgere il sospetto che si tratti in fin dei conti della riedizione di inizio millennio di una polemica per vero antichissima, che periodicamente si ripropone e riaffiora nei nostri salotti buoni, semplicemente mutando forma, ed è, di tempo in tempo, la dicotomia latino/ volgare, antichi/ moderni, classicisti/ romantici, e via discorrendo. Avoltepensochein ognioccasione, adogni riedizione dell’antico conflitto culturale tra passato e presente, si pecchi sempre, mi si passi il termine orrendo, di una specie di cronocentrismo deittico di fondo, inteso come assolutizzazione egocentrica della propria epoca, come se fosse l’unica in cui i valori cambino, come se in nessun’altra si siano date trasformazioni epocali, vissute più o meno come tali se non come vere e proprie “mutazioni antropologiche”: e oggi più che mai sembriamo essere vittime di quest’illusione prospettica. Non esistono, non sono mai esistite, da una parte la letteratura, dall’altra una società letteraria, e sono invece sempre esistiti i generi di larga diffusione da un lato e gli scrittori, più o meno bravi, dall’altro. Al tempo di Dante, scusate se insisto, non era un genere di massa e persino interespressivo ( anche figurativo) quello dei viaggi e delle visioni dell’aldilà? E quella che oggi diremmo la “letteratura colta” cos’era, se non la lirica più o meno d’amore, il poema didascalico e poco altro? Cosa fa Dante sul crinale tra le due? Parte dal basso, dalla letteratura di genere, il genere anzi più diffuso al suo tempo, il più “popolare”, interespressivo quanto oggi il giallo ( che è anche televisivo e cinematografico), ovvero allora quello delle visioni ( Inferni e Paradisi ne trovavate quanti ne volevate, raffigurati nelle chiese toscane e non solo). Dante parte dal basso, ma sul suo scrittoio ha i classici, l’epica antica, Ovidio, Orazio e la “saggistica” del tempo, i teologi, i filosofi. E lui mescola, usa il genere “popolare” e
lo dilata fino a farne altro, in volgare, e allarga il pubblico dei lettori del suo tempo, che altro? E Ariosto, per parte sua, fa qualcosa di diverso? Il poema cavalleresco non era per caso il genere più popolare almeno dai tempi del Boccaccio, strimpellato in ottava rima nelle piazze dai cantampanca con tanto di cartelloni illustrati delle vicende narrate? E Manzoni col romanzo d’amore? E Umberto Eco col giallo, nel libro italiano del Novecento più venduto nel mondo? Quella che oggi studiamo come storia della letteratura che altro è se non questa continua dialettica tra genere e autorialità, tra letteratura di consumo e letteratura d’arte, tra libri che restano e libri che passano? Che altro è se non la fatica di spostare sempre oltre la frontiera, di ricucire gli strappi che ogni volta si ripropongono in modo diverso tra ciò che leggono gli scrittori e ciò che ama il grande pubblico? I tempi cambiano, bella scoperta, e con essi il gusto dei lettori, e col gusto dei lettori la letteratura. Ogni epoca imbandisce alle lettere questa dialettica in modo diverso, ma la dialettica, in sé e per sé, è sempre la stessa. E la letteratura è appunto il continuo processo che ricuce ogni volta in posti diversi la cerniera mobile tra il proprio mondo e una società che è, per definizione, non letteraria. Capisco che per chi lavora nel mondo dell’editoria sia un bel rebus da risolvere a costo della sopravvivenza. Ma se la scelta tra il prestigio e il successo di pubblico, tra i plausi dell’Accademia e le vendite, si pone in termini così conflittuali vuol dire appunto che siamo a una delle tante svolte della storia in cui occorre mediare, ricucire, spostare l’asticella della leggibilità, allargare il pubblico portando un po’ più in alto gli orizzonti e i valori di quello medio. È questo che ci insegnano i classici, che se sono tali è anche perché hanno saputo sciogliere in modo originale proprio questo nodo. Puntare sul largo pubblico tout court è operazione che non paga alla lunga, fermare su un certo standard il modello alto paga ancor meno. Le statistiche dicono che in Italia a un quattordici per cento di cosiddetti “lettori forti” corrisponda poi una massa di circa il cinquanta per cento di non lettori assoluti. Sono gli stessi dati, per certi versi paradossali, delle nostre scuole superiori, che formano una media più bassa di quella europea, ma eccellenze più robuste: i nostri studenti migliori sono sparsi in giro, tra i migliori del mondo, ma lo studente medio italiano è decisamente inferiore al suo collega medio inglese o tedesco. Non sto qui a rifare la storia di una scuola d’élite divenuta improvvisamente, dopo la guerra, scuola di massa, mantenendo programmi e strutture della riforma del ’ 25, ma allentando le maglie, sicché chi esce da un nostro liceo scientifico avendo retto il peso di una decina di materie sa la fisica come e più dello studente inglese o tedesco, ma in più sa anche la filosofia e il latino, e molto meglio la storia, mentre chi ci vivacchia per cinque anni ( ed è la media) ne esce decisamente poco competitivo in tutte le discipline che non ha mai studiato abbastanza. Dunque più che altrove, o comunque in modo diverso, si ripropone in Italia, nel mondo della cultura, la mappa di una società disuguale: i lettori forti hanno esigenze particolari, sentono a volte come bassa letteratura quella anglosassone di genere, che però il lettore medio- basso trova persino troppo faticosa. Passano Dan Brown e le sfumature di grigio, ma poi ti ritrovi in classifica le sette lezioni di fisica, che in nessun altro Paese del mondo entrerebbero mai in una top ten. E allora che fare? Sta agli scrittori imitare i classici non nel senso di recuperarne pedissequamen- te forme e modi, ma nel senso di copiarne l’atteggiamento di fondo, che è di ascolto ( non di chiusura) nei confronti di ciò che viene dal basso e di mediazione rispetto a ciò che produce la cosiddetta letteratura alta. Sta agli editori pescare, in un’offerta più ampia che mai, ciò che va in questa direzione, convincersi che ciò che vende a lungo, alla fin fine, è sempre ciò che riesce a creare una terra di mezzo, un ponte, tra l’intrattenimento ondivago e la raffinatezza o l’originalità della scrittura. Il libro, da questo punto di vista, è una merce diversa da tutte le altre. Tra le altre, quella cui somiglia di più in quanto merce è forse il vino, ma con una differenza non da poco: che non c’è, e non può né deve esserci, un sostanziale scarto di prezzo tra il prodotto di qualità e quello di largo consumo. Un Calvino o un Gadda d’annata non costano come un Brunello di Montalcino Docg. Ma se c’è un’analogia evidente è che in entrambi i casi è l’intenditore che si fa veicolo di diffusione del prodotto, di qualità anche media, nei confronti del “dilettante”, e non è mai il contrario. Sono l’opinionista, il critico, l’insegnante a farsi motori di diffusione, i “moltiplicatori” come dicono gli editori tedeschi dei loro insegnanti, sono loro a innescare l’eventuale passaparola, difficilmente avviene il contrario. Dunque, se si vuole evitare di perdere ulteriori posizioni, bisogna seguire l’esempio di Dante, Ariosto, Manzoni, Eco, che sono comunque esempi di successo: ovvero fare quello che loro hanno fatto, battere la terra di mezzo. Anche nei loro casi una parte cospicua dell’Accademia è rimasta indietro, ma non è l’Accademia che fa la storia della letteratura: non l’ha mai fatta, al massimo la insegna, e in genere con almeno una generazione di ritardo. Ma non è neanche, a farla, il pubblico medio- basso, che segue la- moda del momento, e che presto anche si stufa, e in tempi di crisi la prima cosa cui rinuncia è proprio la lettura. Bisogna lavorare lì, sempre lì, nella terra di nessuno tra le nuove sensibilità che emergono dal basso e le muffe di cui alla lunga si ricopre ogni pigro epigonismo letterario. È un lavoro faticoso che però va fatto sempre, senza sosta, senza continuare a rimpallarsi ( non se ne può più) quei lamenti infiniti sulla pochezza spirituale dei lettori o viceversa sull’autoreferenzialità intransitiva dei letterati. Se si lavora lì, se si continua a scavare lì, nella terra di mezzo, sono sicuro che prima o poi qualcosa si trova. È sempre stato così, non vedo perché non dovrebbe esserlo ora.
*dantista, scrittore e insegnante