I dannati di Debrecen: «Vorremmo venire da voi»
Nelle camerate della vecchia caserma sovietica c’è chi urla, chi piange, chi dorme. E c’è Innocent Kassam che, invece, sorride e palleggia: destro, sinistro, spalla, sinistro. Quando giocava nel Gbikinti di Bassar, squadra di bassa classifica della serie A del Togo, lo chiamavano Neymar. Poi ha deciso che cinquanta euro al mese in franchi togolesi erano pochi e si è messo in viaggio verso l’Europa con altri amici africani. Come tutti è arrivato in Libia ma come pochi ha svoltato a destra verso la rotta balcanica per evitare il mare grosso di Sicilia, pur avendo il cuore battente bandiera italiana: « Pirlo, fantastique » . Kassam è finito al centro di accoglienza di Debrecen, nella grande pianura ungherese di Nordest, e raggiungerà l’Italia dall’alto, forse dal valico di Tarvisio, forse da Gorizia o da più giù. Dipenderà dal passeur di turno che lo guiderà nell’ultima tappa dei suoi cinque omerici mesi. Eccola, dunque, Debrecen, crocevia dei migranti di mezzo mondo, il più grande centro profughi dell’Est Europa e come tale inviso al premier magiaro Viktor Mihály Orbán, leader nazionalista ed euroscettico, che ha deciso di chiudere i 175 chilometri del confine serbo con una rete spinata alta quattro metri. Fra i boschi di Morahalom e di altri paesini del Sud sono già all’opera 900 soldati. Il campo di accoglienza sorge invece ai margini di Debrecen, città di duecentomila abitanti, Il campo di accoglienza sorge in una vasta area ai margini di questa città di duecentomila abitanti, uno dei simboli europei del calvinismo e dell’integrazione
di frontiera, un po’ commerciale, un po’ universitaria, molto austera.
Armata Rossa e facce scure. Qui, a 50 chilometri dal confine romeno e a 100 da quello ucraino, i “nuovi” africani incontrano gli “storici” asiatici in fuga dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Siria, dall’Iraq, ai quali si mescolano anche i giovani albanesi e kosovari. Una babele di razze e di lingue con moltissimi ragazzi, qualche giovane donna del continente nero e vari bambini. Il governo ungherese li ha contati: sono 1.430 profughi ospitati su 15 ettari di terra ruvida come l’aspetto delle guardie che la controllano. Si accalcano in 18 edifici dall’architettura quadrata, un tempo sentinelle dell’Unione Sovietica con gli occhi puntati a occidente per preservare il blocco comunista; oggi sempre sentinelle ma con la testa girata dall’altra parte a intercettare i flussi in movimento da Oriente. E così al posto dei visi slavati dei soldati dell’Armata Rossa ora ci sono i migranti dalla pelle scura, al posto di quel mondo uniforme ed energico c’e’ un’umanità variegata, informe e fiacca. Mentre gli autocarri delle vecchie truppe sono oggi centinaia di furgoni clandestini carichi di disperati che hanno un solo obiettivo: andarsene e subito. Debrecen è infatti anche la stazione di partenza dei mezzi che scaricano profughi sul confine italiano costringendo le polizie e i procuratori del Nordest a unire le forze per far fronte all’emergenza stringendo accordi con Austria e Slovenia. « Il 95 per cento dei migranti entra dalla Serbia, chiede asilo politico e viene portato a Debrecen dove si ferma mediamente 3- 4 giorni. Poi sparisce. Cioè, cerca di andare un Germania o nei Paesi del Nord. Circa duecentomila sono passati di qua negli ultimi anni » , allarma Lajos Ko’sa, determinato presidente del Comitato parlamentare di Difesa e Affari Interni, massima autorità ungherese in materia di immigrazione e numero due di Fidesz, il partito di Orbán. Ko’sa pesta i pugni sul traballante tavolo municipale di Debrecen con previsioni sinistre: « Nel 2015 la Germania ne ha respinti 15 mila. Li riaccompagna da noi con bus e aerei. E loro se ne vanno altrove, anche in Italia. Ecco dove nasce il nostro e il vostro problema. Ce ne sono circa centomila che potrebbero rientrare in Ungheria e non possiamo rispedirli in Serbia perché il trattato internazionale ce lo impedisce. Lì ne possiamo mandare solo 30 al giorno, mentre in senso inverso passano a centinaia, un flusso ora in aumento perché vogliono anticipare la chiusura del confine. Noi siamo il primo Paese comunitario e dobbiamo tenerceli: 4.300 fiorini ( circa 13 euro al giorno, ndr) per richiedente asilo al giorno. A conti fatti ci costano più di tutte le forze di polizia » . Chiaro, dunque, che se vengono in Italia per loro è un sollievo. « Anche se sulle disgrazie di questi ragazzi sta crescendo un business criminale enorme, superiore a quello della droga » , riconosce Ko’sa e lo conferma Roberto Sarcià, il console onorario italiano di quest’angolo di mondo. È il business dei passeur, i trafficanti di uomini.
Portaci tu: 100 euro. Ne sanno qualcosa Usman e i suoi amici, pachistani di Lahore, seduti stremati ai bordi della Samsoni che costeggia il centro migranti: « Vogliono trecento euro, quando ce li ho vado anch’io » . Usman ha 22 anni, parla di talebani, di morte e di fuga. Veste una felpa di Armani, sa più o meno dov’è l’Italia ma non sa esattamente dove andare. « Pegamo » , la butta lì pensando a Bergamo l’amico Fesan, faccia da adolescente e due occhi che devono aver visto qualcosa di brutto. « Germany » , dice un
altro ancora che spunta dal buio con i suoi denti bianchi. « We come to you, 100 euro, ok?”. Ci offrono cento euro per un passaggio in Italia. Non è poi tanto difficile fare il passeur, fra queste strade buie di periferia. Chiunque va bene, basta partire al più presto, anche senza una meta. E mentre loro trattano sul viaggio da fare, gli agenti ungheresi vegliano poco più in là, taciturni e impotenti, inutilmente pachidermici. Poi i giovani pachistani salutano, “saiessaie”, e si dileguano nell’oscurità, ombre vaganti della notte di Debrecen. Secondo i dati del ministero, solo quest’anno l’Ungheria ha ricevuto 53.300 richieste di asilo “mordi e fuggi”. Mentre in Italia ne sono arrivati alcune migliaia, con una settantina di arresti di passeur dallo scorso anno per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. « Il flusso è continuo ed è difficile arginarlo, perché se controlli Tarvisio provano da giù: ne abbiamo trovati anche a Cividale » , ricorda dal Friuli il questore di Udine Claudio Cracovia. « Ci vuole una sinergia con Austria e Slovenia, cercherò contatti con l’Ungheria » , si sta muovendo il neoprocuratore del capoluogo friulano, Antonio De Nicolo. Dall’Ungheria gli ha risposto indirettamente il premier ungherese Orbán con il Muro. « È necessario perché rischiamo di esplodere » , sostiene Ko’sa che è il braccio destro di Orbán. « Io dico: il primo Paese diventi la Serbia o la Bulgaria o la Macedonia, sono posti pacifici, l’asilo lo chiedano lì. O ve li ritroverete in Italia, dove qualche speranza in più ce l’hanno... Questo è per noi un pericolo più grande della guerra dell’Ucraina » .
Il sogno di Neymar. Mentre la politica cerca soluzioni, Debrecen si anima. In un angolo nascosto ci sono venti, trenta ragazzi. È la porta di un call center con una decina di computer. Entriamo. Dentro altri profughi, tutti alle tastiere, in una stanza di tre metri per tre piena di vari sudori, non ultimo quello di vivere. « I call my brother » . « Father » . « Friend » . È oltre mezzanotte e scrivono ai loro cari. Ma c’è anche chi non può permetterselo. Come Innocent Kassam, al quale sono rimaste solo le scarpe da calcio gialle e le medaglie al collo con le quali gira per il Centro migranti dove dorme in una camerata soviet da dieci. Gli hanno rubato tutto in Macedonia, la mafia, dice. E insiste: « Première division, 7 goals » . Fino a gennaio giocava nel Gbikinti. Ora è a Debrecen e spera che qualcuno lo noti. Insomma, lui ancora sogna. Altri meno. Un africano giace a terra, arrotolato su se stesso come una chiocciola. Di fronte a lui un orientale vestito di stracci, forse un afghano, che guarda con occhi splendenti e tristi al tempo stesso e accenna un debole sorriso, un sorriso già vecchio e arrendevole. Mentre un altro del gruppo dei pachistani si avvicina con qualcosa in mano che spaccia per perla. Vuole venderla e per farlo usa una lingua sco- nosciuta caricata con la forza di chi non vuole mollare. Sono tutti ragazzi un po’ disperati. La gente di Debrecen teme la loro disperazione. Dietro il campo vive Gyorgy Haidu, un artigiano delle grondaie che sta tagliando lamiere: « C’è da aver paura perché hanno bisogno di tutto e non sai mai... » . Haidu ha lo sguardo rassegnato: « Io non vivo più, avevo già il problema degli zingari, ora ci sono anche loro. Era meglio l’Unione Sovietica, meglio i russi » . Un pensiero che fa anche il venditore di auto usate Zoltan Lenart, giovane, massiccio e infastidito: « Vedo pestaggi, vedo sporco, vedo gente ubriaca, al supermercato qui avanti non va più nessuno perché un ungherese è stato contagiato da una malattia. » . Insomma, le stesse dinamiche italiane spostate di mille chilometri. La notte di Debrecen è lunga e dannata. Al di là della Samsoni c’è la città vecchia, ancora pulita e vagamente imperiale, che osserva e sospira. Mentre il “ministro” Ko’sa ha deciso le sue vacanze: « Non in Italia, da voi ho subito due furti in due anni, a Roma e a Riccione. Mi spiace ma quest’anno vado in Croazia » . E così l’Italia avrà un politico in meno. E un calciatore rifugiato in più di nome Kassam che lancia un appello a tutti i club: « Je suis ici » . Dice che costa poco e arriva subito. Destro, sinistro, coscia, testa, sinistro. « Pratiquement gratis » . Alè.
Chi arriva ha un solo obiettivo: andarsene subito. « Nel 2015, la Germania ne ha respinti già 15 mila, riaccompagnandoli qui in bus e aerei. E loro se ne vanno altrove »