Senza legge sulle etnie e senza difesa delle terre, la popolazione abbandona il presidente
Dopo otto anni di governo — con risultati in larga misura positivi — il presidente dell’Ecuador Rafael Correa rischia di perdere il consenso dei movimenti sociali e della popolazione di origine indigena, che molto lo ha appoggiato finora. Due le ragioni principali: la presenza invasiva delle attività di estrazione mineraria nelle terre degli indios, e il mancato riconoscimento dell’Ecuador come Stato multinazionale, con diritti per le popolazioni con culture e lingue specifiche. La regione simbolo del malcontento è Zamora Chinchipe, ai piedi della cordigliera andina al confine con il Perù. Da qui è partita nei giorni scorsi una marcia di protesta che raggiungerà la capitale Quito, in difesa di coloro che si sono rifiutati di cedere case e terre a una multinazionale cinese che ha ottenuto una importante concessione dal governo. Nonostante le garanzie — e gli indennizzi garantiti ai locali — molte famiglie non hanno accettato la proposta di andarsene, e le loro proprietà agricole tradizionali sono ormai isole nel mezzo degli insediamenti dei cinesi. Intanto la Conaie, la principale aggregazione dei movimenti indigeni, sostiene che il governo di Correa non ha mantenuto le promesse, abbandonando l’agenda iniziale: un milione di ecuadoriani si considerano indigeni e la Costituzione voluta dal presidente del 2008 comprende la proposta di creare uno Stato plurinazionale, sul modello della Bolivia. Secondo i movimenti ancora vicini al governo, la protesta rischia invece di essere strumentalizzata dalla destra, vanificando i successi dell’era Correa. Il governo sostiene che negli ultimi anni 50.000 famiglie indigene sono uscite dalla povertà e gli investimenti stranieri, anche nel settore minerario, avranno ricadute positive soprattutto sulla popolazione più povera.