Altro che il «mio» Endimione, Sgarbi guardi in casa «sua» all’Expo
Due settimane fa il critico aveva insinuato che il professore di storia dell’arte «contribuisce alla vendita all’estero di capolavori italiani ». Ecco la sua difesa. Che è anche un atto d’accusa
a settimane, e su ogni mezzo di comunicazione, Vittorio Sgarbi sta portando avanti una violenta, odiosa e disperata campagna di diffamazione contro i primi firmatari ( Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Daniele Benati, Marco Tanzi e alcuni altri) di un appello ai ministri Dario Franceschini e Stefania Giannini sottoscritto da oltre duecento storici dell’arte di tutto il mondo. Eccone il testo integrale: «L’improvvisata convocazione di una congerie insensata di capolavori dell’arte italiana, provenienti dai luoghi più disparati, nel padiglione fieristico di Expo “Eataly”, è il culmine di due processi che si intrecciano inesorabilmente: la mercificazione e la privatizzazione del patrimonio culturale e la distruzione materiale e intellettuale del contesto. Ed è crudele il paradosso per cui sotto le bandiere della biodiversità si massacra ogni residuo legame delle opere d’arte con il loro territorio. La raffica di banalizzazioni commerciali irresponsabilmente affidate a un Vittorio Sgarbi è solo la più visibile manifestazione di questa deriva. Chiunque abbia a cuore il destino del patrimonio artistico italiano non può as-
Dsistere in silenzio alla spirale che è stata imboccata negli ultimi tempi, con un crescente grado di improvvisazione. Troppi dimenticano o fingono di dimenticare quanto queste opere siano fragili, così come è dimostrato dagli incidenti piccoli e grandi che anche in tempi recenti non sono mancati. Ma al di là del repentaglio cui vengono sottoposte le opere, preoccupa il radicarsi di un atteggiamento diffuso che nel perseguire l’evento a tutti i costi dimentica le vere sfide poste dalla manutenzione e dalla salvaguardia del nostro inestimabile patrimonio: che sono l’aumento e la redistribuzione di una vera conoscenza fondata sull’innovazione del sapere, cioè sulla ricerca. Si dimentica che solo dalla conoscenza critica può nascere una vera crescita civile: quel «pieno sviluppo della persona umana» che la Costituzione segna come obiettivo finale della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione. La grandezza dell’arte italiana è nel tessuto inestricabile, radicato in un territorio unico al mondo, per cui le opere maggiori e i contesti minori si illuminano a vicenda. Nell’insegnamento quotidiano noi docenti universitari di storia dell’arte cerchiamo di trasmettere ai nostri allievi la consapevolezza di questa complessità, l’importanza di capire le opere in relazione al contesto per cui sono nate, nei confronti specifici che ne rivelano le qualità uniche e irripetibili. Le mostre si stanno imponendo come orizzonte sempre più esclusivo del ‘‘consumo’’ delle opere d’arte, per la fame di eventi che governa la società dello spettacolo: ma non è di queste mostre-zoo che abbiamo bisogno. Lo sradicamento selvaggio dal contesto delle opere d’arte, considerate alla stregua di meri prodotti da commercializzare, si è fatto sempre più frenetico e irragionevole, e promette sviluppi anche più sconsiderati, su scala globale. Questa
« Come Vittorio Sgarbi sa perfettamente, chi studia e pubblica un’opera non acquisisce alcun
potere per condizionarne la vendita »
deregulation — di cui la kermesse Tesori d’Italia rappresenta un emblema eloquente — deve indurre in tutti un serio esame di coscienza. Chiediamo dunque al ministro Dario Franceschini di introdurre nel Codice dei Beni Culturali articoli che disciplinino più severamente la movimentazione delle opere d’arte in Italia, garantiscano la tutela dei manufatti più fragili, restituiscano alle soprintendenze l’ultima parola, escludano le pressioni politiche, impongano tempistiche e progettualità, arginino le improvvisazioni dilaganti per cui non mancheranno mai l’imbonitore di turno e il politico complice. Il grande circo delle mostre rende evidente che la Repubblica non sta affatto tutelando il patrimonio storico e artistico della Nazione: gli storici dell’arte delle università italiane chiedono fermamente che essa ritorni a farlo». La risposta di Sgarbi a questa analisi non è stata sul piano dei contenuti culturali, ma su quello dell’aggressione alla reputazione dei singoli firmatari. Nel mio caso, sono qua a dovermi difendere da un suo articolo scritto per Sette il 31 luglio scorso. Sgarbi mi accusa di aver curato due mostre su Bernini; e di aver studiato e pubblicato una scultura italiana poi acquistata dal Metropolitan Museum di New York. Quelle mostre sono state il frutto di decenni di studio, erano ospitate in musei dello Stato ( Palazzo Barberini a Roma, il Bargello a Firenze), erano imprese di ricerca ma erano anche pensate per il grande pubblico, hanno accolto seminari delle migliori istituzioni culturali a livello mondiale e sono state giudicate esemplari in recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche. E se Sgarbi volesse comprendere quale abisso intellettuale separa queste due mostre dalla rassegna di Eataly, sono prontissimo a spiegarglielo, pubblicamente e con santa pazienza.
Inutili mostre. L’Endimione ( e non Adone) di marmo che per primo ho riconosciuto e pubblicato come opera dello scultore veneto del Settecento Antonio Corradini è certificato in Francia già nel 1950. Ho avuto notizia della statua quando si trovava nel Principato di Monaco, e l’ho studiata a Londra. Era dunque un’opera uscita da molti decenni dal patrimonio artistico italiano, e nulla avrei mai potuto fare per farvela rientrare: perché— come Sgarbi sa perfettamente — chi studia e pubblica un’opera non acquisisce alcun potere per condizionarne la vendita. Trovo molto triste esser costretto ad usare questo spazio per difendermi da insinuazioni risibili, quando il vero tema sarebbe l’enorme occasione perduta con Expo. Con tutto il denaro — pubblico e privato — gettato nelle infinite e inutili mostre milanesi si sarebbe potuto restaurare e mettere in funzione uno dei mille complessi monumentali collegati a tenute agricole che oggi versano nel degrado e nell’abbandono in tutta Italia. Così il nesso arte- nutrizione sarebbe stato davvero onorato, si sarebbe creato lavoro stabile e tutta questa imbarazzante retorica del nulla avrebbe almeno lasciato qualcosa di positivo e permanente. Ma si è fatto tutto il contrario. *Professore associato di Storia dell’arte
moderna all’Università Federico II di Napoli, Dipartimento di Studi umanistici