A Tripoli si innesca la bomba di Sarajevo
Con soldati impreparati e armati di presunzione, l’Italia s’impantana in una Libia dalle tante anime. Che ancora oggi resta imprevedibile
« Ese stessimo negoziando con i libici sbagliati? » . Un editoriale pubblicato dal New York Times lo scorso 14 giugno propone una questione più che legittima di fronte ai fallimenti della comunità internazionale nel tentativo di pacificare la Libia sconvolta dalla guerra civile. Si pose già al momento dell’intervento militare della Nato nel 2011. Ma è anche una questione con radici storiche profonde, risalenti al tempo dall’invasione italiana nel 1911. Un’invasione che, come sostiene ormai apertamente la storiografia più recente a fronte degli oblii precedenti, è stata alle origini della Prima guerra mondiale, tanto sconvolgente per gli equilibri dell’epoca da rappresentare addirittura una delle cause scatenanti quel conflitto. Queste riflessioni mi vengono naturali a Tripoli mentre seguo l’annaspare della diplomazia italiana e tentativi per liberare i quattro tecnici dipendenti della Bonatti rapiti la sera del 20 luglio, quando dal confine con la Tunisia stavano raggiungendo in auto il terminale Eni di Mellitah. I negoziati sono segreti. Tutto lascia credere i rapitori siano banditi legati al mondo degli scafisti. A Tripoli fanno sapere che tra le richieste c’è anche quella della liberazione di sei o sette scafisti delle bande tra Zuwarah e Sabratah, catturati di recente dalla polizia italiana. Ma probabilmente sarà sufficiente pagare un forte riscatto, come del resto è già avvenuto più volte in passato, per ottenere la liberazione degli ostaggi. E non è escluso che alla data di pubblicazione di questo articolo ciò sia già avvenuto. Non servono tuttavia qualità di analisi particolarmente fini per comprendere che le conseguenze dell’intervento Nato quattro anni fa sono state catastrofiche. Tenuto conto che, se non ci fossero stati i raid occidentali, la rivolta libica si sarebbe spenta sul nascere e oggi Gheddafi sarebbe ancora in sella. Il Paese è in ginocchio. I servizi pubblici sono allo sbando, le strade insicure, la violenza regna sovrana. A Tripoli i tagli all’energia elettrica sono all’ordine del giorno. Chi ha potuto è andato all’estero. Mancano medici, infermieri, ingegneri, professori universitari, farmacisti, tecnici di ogni genere. Gli ospedali da tempo hanno cessato di effettuare gli interventi importanti. Coloro che possono vanno a farsi operare in Tunisia. Il dinaro serve ai poveracci, in meno di un anno il suo valore si è dimezzato. Per tentare di uscire dal caos, dall’inizio dell’anno l’Europa, con l’Italia in testa, sostiene l’iniziativa di mediazione dell’inviato delle Nazioni Unite, il diplomatico spagnolo cinquantenne Bernardino Leon, tra i due governi in cui grosso modo è diviso il Paese: Tripoli e Tobruk. La speranza è spingerli all’unità nazionale. Ma le differenze restano profonde. Da qui la critica del New York Times, che in realtà riflette i dubbi della diplomazia americana. E se le trattive con Tobruk e Tripoli fossero affiancate a quelle con le milizie più importanti? Più passa il tempo più si delinea che il parlamento di Tobruk ( il cui mandato comunque dovrebbe scadere il 20 ottobre) è ostaggio della forte milizia berbera di Zintan, assieme ad alcune componenti delle vecchie tribù filo- Gheddafi. Per contro, Tripoli è dominata dal blocco islamico raccolto nelle milizie di Misurata. In entrambi i campi sono i capi tribù e i massimi responsabili dei loro gruppi armati emersi nel 2011 a dettare legge. L’errore di Leon e degli europei, secondo il punto di vista americano, è avere dato troppo ascolto alle ragioni di Tobruk, offendendo Tripoli e comunque senza capire il peso delle singole milizie.
Un mix di culture. Nulla garantisce che la posizione americana possa sortire effetti migliori. Ma la situazione nel suo complesso ricorda le ragioni delle enormi difficoltà che caratterizzarono l’invasione italiana un secolo fa. Oggi come allora la Libia resta un pianeta poco conosciuto, quasi incomprensibile nelle sue realtà tribali, nel suo connubio unico e complesso tra identità
africana, berbera e arabo- islamica. In un recente libro dal titolo indicativo, La Scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la Prima guerra mondiale, gli autori Franco Cardini e Sergio Valzan sottolineano quanto l’allora governo Giolitti non fu assolutamente in grado di valutare le difficoltà e le problematiche che l’invasione della Libia avrebbe comportato. Si pensava che lo sbarco sarebbe stato una sorta di facile passeggiata per le truppe sostenute da quel gioiello di tecnologia all’avanguardia che era la nuova marina militare italiana. Il contingente locale turco era composto da 5.000 soldati male equipaggiati e pocomotivati. Istanbul aveva difficoltà a rifornirli via mare. Il Sultano era pronto a qualsiasi compromesso politico pur di salvare la faccia e lasciare agli italiani la gestione fattuale di quella lontana provincia di un impero già gravemente minato dal disfacimento interno. Ma Roma voleva a tutti i costi il successo militare da sbandierare all’opinione pubblica, doveva riscattare lo smacco di Adua nel 1896, mirava ad imporsi sulla scena internazionale come nuova potenza coloniale e cercava un “posto al sole” nazionale per gli emigrati che a milioni partivano per l’America. Soprattutto il governo italiano aveva sottovalutato l’opposizione della popolazione locale e il retaggio della sua religione, della sua cultura tradizionale. « Un misto di presunzione e di razzismo faceva credere agli italiani che il loro arrivo sarebbe stato accolto con favore, basandosi sull’ipotesi non dimostrata che un governo europeo fosse in ogni caso e per tutti preferibile a quello ottomano, quali che ne fossero il modo di affermazione e le prospettive di esercizio. La popolazione araba era considerata apatica e sottomessa, non si dava alcun peso né alla comune appartenenza dall’Islam di arabi e turchi — il Sultano di Costantinopoli rivestiva anche la dignità califfale sunnita — né alla lunga durata del loro rapporto che aveva portato all’individuazione di forme di convivenza e di collaborazione fra i rappresentanti del governo ottomano e le autorità espresse a livello tribale dalle comunità arabe, sulla cui organizzazione l’Italia ignorava praticamente tutto » , si legge nel libro. Sono parole che ben spiegano i fallimenti appena dopo lo sbarco. Il primo manifesto affisso per le strade di Tripoli, scritto in arabo, in cui si garantivano ai musulmani il rispetto per la religione e delle proprietà private, era sormontato dal grande stemma sabaudo dove la popolazione, in larga parte analfabeta, riconosceva solo la croce cristiana. Solo un mese dopo i primi sbarchi la crudezza dello scontro a venire si manifestò in tutta la sua durezza. Vennero allora trovati i resti dei quasi 300 soldati morti negli scontri di Scira Sciat del 23 ottobre 1911. Un corrispondente francese del Matin così descriveva in quei giorni quelli di un’ottantina di bersaglieri torturati prima di essere uccisi: « Si sono tagliati loro i piedi, strappate le mani; poi sono stati crocefissi. Un bersagliere ha bocca strappata sino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli tratti, un terzo infine ha le palpebre cucite con spago da sacco » . La stampa italiana invece non può riportarlo, il governo di Roma ha imposto una censura ferrea. Ci vorranno più di vent’anni e infinite crudeltà da entrambe le parti per domare la rivolta libica.
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