I pasticceri che sonoriusciti afar dire panetùn ai siciliani
Una famiglia dell’isola ha reinventato il tipico dolce milanese, anche grazie alla manna. Una storia cominciata quando si andava a prendere il ghiaccio per le granite a duemila metri di quota
Se è strano, come cantava Ornella Vanoni, sentirsi innamorati a Milano, figuriamoci quanto dev’essere strano immaginare di fare panettoni a Castelbuono, Sicilia centrosettentrionale, una quindicina di chilometri dalla costa di Cefalù e all’inizio del Parco delle Madonie. Eppure, è partendo da lì che Fiasconaro si è affermato, aprendosi la strada in un mondo diffidente se non ostile fino a quella che passa agli annali come la “clamorosa vittoria in trasferta”. Si parla di sette anni fa. Allora Luca Zaia, da ministro dell’Agricoltura, inaugurò TuttoFood. Col senno di poi, il luogo della manifestazione era significativo e premonitore: RhoPero, dove ora è in atto la grande kermesse dell’Expo dedicata appunto al cibo e “a nutrire il pianeta”. Oltre al tradizionale nastro, il ministro tagliò un panettone enorme e insolito. Cinquanta chili. Ma, soprattutto, arrivato via corriere da oltre lo Stretto di Messina. La firma sulla confezione: Fiasconaro, con una fontana per simbolo, quella che sta in piazza a Castelbuono, provincia di Palermo. Ora, è evidente come la storia di un “panetun” che vince a Milano arrivando dalla Sicilia non possa essere semplice e banale. Bisogna ricostruire, non trascurando qualche divagazione. La prima riguarda la “manna”, contenuta in un vasetto accluso alla confezione, da spalmare sul panettone. Proprio la manna, “quella che viene dal Cielo!”, direte voi. No! La manna è una specie di resina che si ottiene incidendo la corteccia dei frassini. Alberi che, nelle Madonie, erano concentrati nei comuni di Catelbuono, Pollina e Cefalù. Oggi sono pochi i contadini che si dedicano a questa raccolta, a lungo, fino a una trentina di anni fa, i volumi non erano irrilevanti. La manna era usata volentieri in campo farmaceutico, come regolatore intestinale. Dal punto di vista alimentare, al massimo, veniva impiega- ta in piccola misura per aromatizzare, come dolcificante naturale.
Tutto comincia da un bar. Quanto alla “manna” divina non sono evidenti i legami con quella siciliana. Anche perché le descrizioni della Bibbia sono contrastanti: simile a brina? Minuta e granulosa? Analoga ai semi di coriandolo? In più, anche se lo scopo è sempre chiaro ( Dio la manda per sfamare
« Usiamo frutta candita di queste parti, mandorle e pistacchi , vino dolce siciliano per l’uva sultanina... »
gli ebrei), gli studiosi danno identificazioni assolutamente divergenti: termine generico per indicare il cibo? Resina di tamerici? secrezioni di insetti? Funghi allucinogeni? Lasciamo la questione in sospeso e torniamo indietro ( nella storia del panettone isolano, non nell’Antico Testamento...). Al 1953. È quando Mario Fiasconaro — il “don” davanti se lo meriterà presto — decide di azzardare l’acquisto di un piccolo bar in piazza Minà Palumbo. Siamo a Castelbuono, e lui di qui è. Però, da anni, non lavora qui, sta nella squadra che lavora per un’azienda zootecnica ( pastorizia, insomma) di Gibilmanna. Vuole tornare, e la strada è aprire quel piccolo esercizio, un baretto, proprio sullo spiazzato — terra battuta e, soprattutto, polvere, intendiamoci— sotto all’imponente Castello che la famiglia locale più eminente, i Ventimiglia, ha ceduto ai cittadini nel 1912 grazie a una colletta popolare. Non mancano altri avvenimenti notevoli a movimentare la vita in paese. È nato lì il più illustre fascista siciliano, Alfredo Cucco: sarà sottosegretario nella Rsi, ma il rapporto col duce è oscillante, per esempio, nel 1924, Mussolini è atteso in visita a Castelbuono, ma arriva con tre ore di ritardo e non scende nemmeno dall’auto ( la spiegazione dello sgarbo è oscura, forse dipende dai troppi voti locali per una lista fuori dal Pnf). La guerra porterà anche bombe e lutti. Il nuovo bar è uno dei primi segnali che si torna alla normalità. « Papà cominciò coi caffè e coi liquori. Presto arrivarono le cassate, le brioche e le prime granite » , ricorda Nicola Fiasconaro (“pasticcere”, come si definisce nel biglietto da visita) spiegando che l’ultima delizia richiedeva un duro lavoro: « Il ghiaccio si andava ancora a prendere con le mule, su ai 2000 metri di Piano Battaglia, la vetta più alta delle Madonie. Erano piccoli ghiacciai creati dall’uomo: i contadini andavano d’inverno a battere e pressare la neve scavando delle buche che poi venivano coperte di foglie. D’estate, poi, si andava a recuperare questo ghiaccio. C’era un vero e proprio commercio: gli Alliata di Bagheria lo trasportavano fino in Tunisia » . La vita di don Mario si divide fra il bar in piazza Minà e via San Niccolò, dove ha il laboratorio e, nei due piani superiori, la casa. Crescono lì i cinque figli che ha dalla moglie, Agata Capuana: due femmine, Maria Enza e Provvidenza, e tre maschi oggi tutti in azienda, Martino e Fausto, oltre a Nicola. Sono anni in cui anche Castelbuono comincia a conoscere il benessere. È nato lo stabilimento Fiat a Termini Imerese, in molte famiglie qualcuno lavora lì o nelle aziende che sorgono intorno. Fiorisce una platea di piccoli artigiani ebanisti e falegnami. E si gonfia il settore pubblico. Con gli stipendi fissi crescono anche le richieste merceologiche.
Servizi matrimoniali. Nel bar Fiasconaro fanno la comparsa i gelati, le cassate, le paste di mandorle. Alla fine degli anni 50, il locale di piazza Minà non basta più. Si sceglie uno spazio più ampio, in piazza Margherita, il cuore cittadino. Ora, i clienti arrivano anche da fuori: « E papà cominciò a fare anche catering, in tutti i comuni delle Madonie. I matrimoni erano diventati più ricchi. Lui, agli inizi, si specializzò nelle “guantierine”, cioè vassoietti con 4 o 5 pasticcini, ma presto passò alle arancine, poi arrivarono le “formette” di pasta al forno ( una volta ne preparò ottocento...), infine fu giocoforza servire dei pasti veri e propri » . Intanto, i ragazzi si fanno le ossa. A partire da Nicola che è anche curioso. Il padre lo presenta ai colleghi, lo manda a fare apprendistato girando la Sicilia nelle loro
botteghe. Così lui esplora le differenze fra le nove province che nel campo della pasticceria sono notevoli. E comincia a fare le sue scelte: « Sicuramente la tradizione messinese è più delicata, meno carica di quella che si trova più a ovest. Non furono poche le discussioni con mio padre quando, tornando da quelle esperienze, insistevo per alleggerire i nostri dolci, per modificare la nostra crema pasticcera... » . Ce ne furono meno, in realtà, quando il figlio venne a proporgli l’idea fuori dal mondo: il panettone siciliano. Don Mario sta anche traversando un momento difficile. È scomparsa la sua prima moglie. Avrà la fortuna di trovare Angela — Fiasconaro anche lei di cognome— che sposa nel 1981 e che, dopo un comprensibile impaccio iniziale, conquisterà anche i cinque figli. La svolta arriva nel 1986. Allora, Nicola s’iscrive all’Accademia di arte culinaria Boscolo Etoile Academy appena inaugurata a Chioggia Sottomarina. Lui, per la verità, segue i corsi di pasticceria artistica, la sua passione sono ancora le competizioni fra mirabolanti strutture di panna o di zucchero soffiato. Però, un giorno entra nell’aula dove Busnelli di Arluno, celebre pasticcere alle porte di Milano, spiega i pregi della pasta acida e del lievito madre, ossia la base di dolci come il pandoro o il panettone. È un colpo di fulmine. Appena torna a Castelbuono domanda al padre perché non provano a farne anche loro: « In fondo, ad ogni Natale, ne vendevamo duemila di varie marche. Mi sembrava che potevamo metterci la faccia invece di rivolgerci altrove » . Tecniche diverse. Qui, bisogna mettere in chiaro due cose. La strada imboccata da Nicola punta molto sull’introduzione di “sicilianità” ( « Nel senso che nei nostri panettoni usiamo frutta candita di queste parti, mandorle e pistacchi, vino dolce siciliano per l’uva sultanina, nocciole di Polizzi... » ) , combinata, però, con un vero e proprio culto della tradizione nordica: « Ci sono tre tecniche distinte. La lombarda senza bagno in acqua dell’impasto, con una forma alta, dalla “scarpatura” simile a un fungo. La veneta che conduce al pandoro. E la piemontese, la più affascinante per me e quindi la più vicina alla nostra produzione, che prevede il bagno in acqua per rinfrescare il lievito madre nei vari passaggi dei lieviti, la glassatura con nocciole e una forma bassa, schiacciata. Nel campo, è una vera e propria rivoluzione e l’artefice fu Ferruà di Galup. Intendiamoci, però, sono tutte tradizioni da studiare e recuperare. Il panettone merita rispetto e oggi questo, talvolta, viene a mancare. Per dire, io mi sono messo d’impegno anche a recuperare certe ricette di grandi come Motta o Alemagna » . È così che, nel 1987, nasce il panettone siciliano. Il debutto col “Madonita”, dove è evidente il debito d’ispirazione verso Ferruà: forma bassa e glassatura di nocciole.
Fancy Food Show. In contemporanea, Fiasconaro sforna il “Mannetto” dove comincia a impiegare una percentuale di manna insieme al cioccolato bianco ( « Così, fra l’altro, uso meno saccarosio » , spiega Nicola che, appunto, acclude un barattolo di prelibata manna anche a diversi fra i suoi panettoni) per un dolce dallo stampo simile a quello del pandoro. Funziona, in Sicilia. La misura che possa funzionare anche altrove, Nicola ce l’ha nel 1998, quando parte per New York e porta un container di suoi panettoni al Fancy Food Show, a Broadway: li finisce tutti in un lampo. Ora, in catalogo, ne ha quindici tipi diversi. L’ultimo nato è il King: « Ho modificato un po’ la ricetta originaria, inserendo una percentuale di grano siciliano che conferisce valore aggiunto al prodotto, usando Malvasia delle Lipari per l’uva sultanina e prevedendo un passaggio in più nella fermentazione del lievito » . E c’è un’ambizione, dietro: « L’ho concepito per destagionalizzare definitivamente il panettone. Oltre al rispetto merita anche di esser goduto tutto l’anno » .
8 - continua
« Papà cominciò con i caffè e con i liquori. Poi arrivarono le cassate, le brioche e le prime granite »