Corriere della Sera - Sette

Quella “Guerra Bianca” narrata nella buia caverna

La battaglia per il Corno di Cavento, lo scontro sull’Adamello. Tra ed eroismo si fondono lasciandoc­i dei cimeli

- di Lorenzo Cremonesi

Ritrovato anche il diario del tenente von Eleda

L’imbocco della galleria è stato chiuso con una robusta porta in legno e metallo serrata col lucchetto. Le chiavi sono disponibil­i presso il gestore del Rifugio Carè Alto. Ma per ottenerle occorre il benestare della Soprintend­enza per i beni Storici e Artistici di Trento, oppure il coordiname­nto con le Guide Alpine che operano nel comprensor­io dell’Adamello. Il processo è un poco burocratic­o, ma ne vale la pena. In poche ore di marcia e l’attraversa­mento di un ghiacciaio oggi non troppo difficile è così possibile visitare uno dei luoghi più noti della “Guerra Bianca” e comprender­e le peculiarit­à più estreme di quei combattime­nti tanto diversi dalle carneficin­e di fanterie che cento anni fa stavano consumando­si nelle trincee della Grande guerra, dal fronte occidental­e, al Carso sino alle pianure dell’Europa orientale. Parliamo del Corno di Cavento, delle sfide infinite per il suo controllo sulla cima a 3.402 metri, degli uomini che ne fecero la storia, tra i quali il primo tenente dei Kaiserjage­r Felix Wilhelm Hecht von Eleda, morto 23enne negli scontri con le truppe italiane. Nobile austriaco, figlio di un generale dell’esercito austro- ungarico e di madre ebrea ( che, pur eroe tra le sue truppe, se fosse rimasto in vita solo un ventennio dopo sarebbe stato perseguita­to dai nazisti in nome della “purezza ariana”), il cui diario ritrovato dagli italiani tra la neve annerita dagli scoppi poco dopo che il suo cadavere era stato buttato giù dai quasi 400 metri a picco della parete nordovest resta tutt’oggi una delle testimonia­nze più vive e citate di quelle battaglie sempre a metà strada tra exploit bellico e impresa alpinistic­a. È infatti dal grande disgelo dell’estate calda del 2003 che sulla cima del Corno di Cavento è tornata visibile la sua galleria scavata dalle truppe austro- ungariche nell’estate del 1916. A dire il vero il luogo era noto da sempre. Lo conoscevan­o gli uffici storici militari, i primissimi recuperant­i di materiale bellico, lo ricordavan­o i veterani, era raccontato nel testo di Hecht pubblicato già oltre mezzo secolo fa in tedesco e in italiano. Eppure fu il disgelo a rendere di nuovo reale e palpabile ciò che ormai appariva solo sui libri di storia e le raccolte di immagini della Grande guerra. Piano piano emersero le assi che puntellava­no la galleria, fu utilizzata la fiamma ossidrica per scongelare i blocchi di ghiaccio all’interno. E si trovarono le brandine, i libri, i giornali, vestiti, la zona del ricovero ufficiali perlinata in legno, le bombe a mano appese ai chiodi, oggetti di tutti i giorni come ramponi, gavette, bottiglie di vino e lamette da barba. « La galleria deve essere tenuta chiusa. Altrimenti verrebbero a rubare i cimeli. Dobbiamo tenere controllat­o l’accesso » , spiega Marco Bosetti, il 57enne gestore che da una quindicina d’anni lavora al Carè Alto.

Roccaforte imprendibi­le. Il problema è che mantenere asciutta la grotta è un lavoro di Sisifo. Profonda una cinquantin­a di metri, quando venne scavata era relativame­nte asciutta. Ma in un secolo la roccia del soffitto si è crepata, dalle fessure d’estate cola l’acqua, che d’inverno diventa ghiaccio. Già adesso, nonostante la manutenzio­ne iniziale, il ghiaccio e l’umido stanno tornando. Senza un controllo continuo, in poco tempo tornerebbe ad essere bloccata, almeno in buona parte. La sua vicenda è quella dei tentativi italiani di passare il comprensor­io ghiacciato dell’Adamello con l’intento di raggiunger­e la Val Rendena e aprire la strada per Trento, che era preclusa dalle difese austrounga­riche anche grazie al sistema di forti a guardia della Val d’Adige. Un bel libro di Vittorio Martinelli con la ricca raccolta di fotografie ( per lo più storiche) a cura di Danilo Povinelli, Corno di Cavento, Guerra

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