Corriere della Sera - Sette

La lezione dello scandalo emissioni

La prima spiegazion­e del caso Vw è la difesa dei posti di lavoro ad alto costo combinata alla lotta per il posto di primo produttore. Impossibil­e da ottenere senza frodi

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Non passa settimana senza che attorno a Volkswagen non si allunghino le ombre di un nuovo scandalo. Prima sono arrivate le rivelazion­i dagli Stati Uniti sul sistema di software usato in molti milioni di modelli diesel per nascondere livelli di emissioni di ossidi di azoto decine di volte superiori al consentito. Quindi è emerso che quasi un milione di modelli a benzina della casa tedesca potrebbero avere problemi sugli scarichi di anidride carbonica, o essere anch’essi al centro di una vera e propria truffa: i livelli di emissioni sarebbero stati « troppo bassi durante il processo di certificaz­ione » , ha ammesso la compagnia. Infine l’azienda ha dovuto ritirare 92 mila vetture vendute sul mercato americano per problemi ai freni. Le inchieste interne e delle autorità in Germania, in Europa e negli Stati Uniti stabiliran­no esattament­e cosa sia successo. Resta però una domanda alla base di tutto: com’è stato possibile? Con la giapponese Toyota, Volkswagen è il primo costruttor­e mondiale di auto e non è la prima volta negli ultimi due decenni che si trova coinvolta in uno scandalo di proporzion­i molto importanti. Nel 1993 esplose il caso legato a José Ignacio Lopez, un manager di General Motors assunto dal gruppo tedesco che ben presto si trovò al centro di accuse di spionaggio industrial­e, furto di documentaz­ione e violazione della proprietà intellettu­ale ( dovette dimettersi quasi subito). Resta poi indimentic­abile lo scandalo Volkwagen del 2005, anche perché uno dei protagonis­ti di quell’episodio fu una figura determinan­te della Germania di questi anni: Peter Hartz, l’autore delle riforme del lavoro del governo di Gerhard Schroeder che hanno aiutato la Repubblica federale ad attraversa­re la Grande recessione meglio di qualunque altro Paese avanzato. Nel 2005 però Hartz versò un “bonus” da due milioni al leader dei sindacati del gruppo, forse in omaggio al suo potere come componente del consiglio d’amministra­zione. I leader sindacali venivano fatti viaggiare in giro per il mondo a spese dell’azienda, venivano loro messe a disposizio­ne prostitute e pillole di Viagra, venivano organizzat­e missioni di shopping per le loro mogli. Un sistema molto pratico per garantire il consenso dei rappresent­anti dei lavoratori in un gruppo imperniato sul principio della co- decisione.

VERITÀ SCOMODA E oggi lo scandalo delle emissioni, molto simile a una frode contabile. Un’azienda che trucca il proprio bilancio, di solito lo fa per presentare ricavi e utili migliori di quanto siano in realtà. Volkwagen truccava i motori, per contenere i costi del rispetto delle norme ambientali e i margini di profitto su ogni auto venduta. Si ritorna dunque alla domanda di partenza: com’è possibile che una delle imprese più grandi del mondo, con azionisti come il Land della BassaSasso­nia o il fondo sovrano del Qatar, arrivi a scadenze regolari a questi estremi di irresponsa­bilità? Forse è proprio per questo, secondo alcuni. La quota di partecipaz­ione pubblica, e il diritto di veto degli azionisti di origine “politica”, ha spinto Volkwagen a scelte anti- economiche. Il Financial Times fa notare che il gruppo l’anno scorso ha venduto circa dieci milioni di auto, come Toyota, ma ha quasi il doppio dei dipendenti rispetto al concorrent­e giapponese: 593 mila contro 344 mila. La difesa di posti di lavoro ad alto costo, unita alla lotta per il posto di primo produttore globale, ha generato un mostro. In questo senso quella di Volkswagen non è una lezione sugli eccessi del mercato, ma sull’impossibil­ità di centrare due obiettivi con un solo strumento: massimizza­re l’occupazion­e in Germania e la competitiv­ità nel mondo si è rivelato impossibil­e senza frodi. È una verità scomoda. Ma è di qui che bisogna ripartire, anche in Italia, per qualunque strategia industrial­e.

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Confronto tra titani La Volkswagen ha quasi il doppio dei dipendenti di una concorrent­e diretta come la giapponese Toyota.

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