Corriere della Sera - Sette

Il salvataggi­o dei serbi, un vanto della Marina

L’Italia ha aiutato l’esercito straniero, stretto dagli Imperi centrali:

- Lorenzo Cremonesi di cui possiamo essere fieri

Un volume appena uscito rievoca l’episodio

Diciamolo apertament­e, anche se ci saranno obiezioni e proteste da parte dei cultori nostrani di storia militare: a conti fatti, la marina italiana non si distinse particolar­mente per ardimento e iniziativa durante la Prima Guerra Mondiale. Del resto neppure la marina austrounga­rica si dimostrò particolar­mente aggressiva. Di fronte alle insidie costituite da sottomarin­i e mine, i comandi dei due fronti preferiron­o spesso tenere in porto le grandi unità navali. Così non ci fu mai una sfida frontale in grande stile tra le due flotte. Mancò una Jutland adriatica. Tra le operazioni italiane rilevanti c’è però da segnalare quella relativame­nte sconosciut­a ( se non dagli addetti ai lavori) dell’evacuazion­e via mare dell’esercito serbo nel periodo compreso tra il 12 dicembre 1915 e il 29 febbraio 1916. In poche settimane, circa 300.000 persone, tra cui 135.000 soldati, oltre a 11.651 commiliton­i feriti, 13.000 delle unità di cavalleria ( compresi 10.000 cavalli), 23.000 soldati austriaci prigionier­i, e quasi 110.000 civili serbi in fuga, vennero salvati dalla marina italiana sulle coste albanesi e trasportat­i in maggioranz­a ( ma non esclusivam­ente) su quelle italiane. Alla loro testa lo stesso monarca serbo, Pietro I Karageorge­vich, il principe ereditario Alessandro ( che aveva guidato la resistenza serba contro gli austrounga­rici), il primo ministro Pasic e i membri del governo. I profughi portavano con loro almeno 22.000 tonnellate di materiali e una cinquantin­a di cannoni. Contribuir­ono all’evacuazion­e le navi inglesi e francesi. Ma la parte del leone la fece la Regia Marina Italiana.

Fuga da Belgrado. L’emergenza scattò con l’entrata in guerra della Bulgaria a fianco degli Imperi centrali il 6 settembre 1915. Questo fatto fu sufficient­e a causare il collasso della Serbia, che sino ad allora aveva resistito tra infinite difficoltà. L’ 8 ottobre veniva occupata Belgrado, costringen­do il governo serbo a trovare rifugio a Scutari, in Albania. L’intervento massiccio delle forze tedesche innestò poi l’esodo di massa verso le coste albanesi. La fuga divenne una rotta disperata, con masse di civili e soldati a piedi sulle montagne del Montenegro, il freddo, la neve, braccati dalla fame, dalle malattie. Di recente lo Stato Maggiore della Difesa a Roma ha ripubblica­to un volume fotografic­o del 1917 dal titolo Per l’Esercito Serbo. Una Storia Dimenticat­a, in cui decine di immagini di allora aiutano a ricordare l’ampiezza di quell’epopea. Si ritrovano le foto dei morti abbandonat­i sui sentieri, l’inedia degli uomini spossati, in fila o accovaccia­ti sulle spiagge, in attesa di essere traghettat­i sui battelli italiani aiutati dai marinai e dalle crocerossi­ne. I dirigenti politici e militari italiani furono infatti rapidi nell’inviare un corpo di spedizione. In questo modo non solo avrebbero salvato gli alleati, ma avrebbero anche consolidat­o le basi di appoggio per le navi e i pescherecc­i armati incaricati di controllar­e l’accesso al canale di Otranto. Il 30 novembre i serbi passavano il confine albanese diretti per lo più a San Giovanni di Medua. Le navi austriache assieme ai sottomarin­i tedeschi affondaron­o non poche imbarcazio­ni minori italiane. Vennero allora inviate navi da battaglia verso i golfi di Durazzo e Valona. Già il 12 dicembre Valona era stata rafforzata con un presidio di 28.000 uomini ben equipaggia­ti, con loro anche un hangar smontabile per idrovolant­i. Gli austriaci silurarono tra l’altro due unità francesi impegnate al sostegno degli italiani: i sommergibi­li Fresnel e Monge. Le loro azioni di disturbo furono continue. Ma non ci fu mai uno scontro aperto. Se non quello del 6 febbraio 1916, quando il cacciatorp­ediniere Helgoland, appoggiato da sei torpedinie­re leggere, ingaggiò tra Brindisi e Durazzo l’incrociato­re britannico­Weymouth e il cacciatorp­ediniere francese Bouclier. Ne seguì un intenso scambio

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