Il turismo punta sui cinesi
Dal suo ufficio a Gerusalemme si «dedica a metà dell’umanità», come Uri Taub dice alla rivista digitale Al Monitor. È capo del dipartimento per l’Asia e il Pacifico al ministero del Turismo e sa che convincere a venire in Israele un miliardo e 300 mila cinesi potrebbe risolvere un’industria messa in difficoltà dalla guerra con Hamas dell’estate del 2014. Quei 50 giorni hanno scoraggiato anche i viaggiatori internazionali più spericolati, così per la prima volta è stato nominato un consigliere per il turismo all’ambasciata di Pechino. Le guide turistiche sono spronate a studiare il cinese e gli alberghi a offrire menu su misura per i gusti orientali. L’obiettivo di Taub è convincere il governo a concedere un visto automatico all’arrivo, visto che la compagnia di bandiera cinese Hainan ha inaugurato i voli diretti dalla capitale all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La speranza è di riuscire ad attrarre 100 mila cinesi, che raddoppierebbero quelli sbarcati nel 2015. Anche se le 47 mila presenze dell’anno scorso sono già un balzo, restano una cifra minuscola, lo 0,4 per cento dei cinesi che girano per il mondo. L’associazione degli albergatori è convinta invece che Israele debba continuare a puntare sui pellegrini, ebrei e cristiani. Anche perché adeguarsi alle esigenze dei clienti cinesi è costoso per gli hotel locali: dalla traduzione di tutte le scritte al dover garantire un pettine per ogni ospite. «È quello che chiedono sempre», commentano gli operatori.