Corriere della Sera - Sette

Sconfitti,

Tutti escono più o meno compresi i vincitori

- Di Maria Deva

In un celebre saggio Cesare Garboli fece il ritratto perfetto del grande attore. Si ispirava a Carlo Cecchi, suo intimo amico, ma da par suo colse nel segno le particolar­issime forze e fragilità di tutta una specie. Forze e fragilità che non sono altro che un precipitat­o di quello che di marcio e di sublime abita le viscere di ogni uomo, rappresent­ate con intensità di volume e gesti solenni. Il problema nasce semmai dal fatto che nell’attore si raccolgono più vite insieme: la sua e quella delle decine di personaggi della finzione che entrano, sera dopo sera, dentro il sangue e lo rimescolan­o senza poterlo più dividere dalla realtà. Così che poi anche una coda in posta diventa una tragedia, mentre l’amore – sempre eterno e sempre rinnovato – una tormentata commedia. Il risultato è un “mattatore”: un attore di grande presenza scenica, ma anche un attore un po’ matto, che ha visto più notti che giorni, che ha ripetuto per una fetta grossa della propria esistenza le parole di altri, che ha dovuto ogni giorno rifare casa in una stanza di hotel, la cui felicità dipende dal fatto che il solito ristorante dopo spettacolo non cambi lo chef informato su ogni piega del suo stomaco, che il cameriere dello stesso sappia bene quando consigliar­e con il dovuto garbo un’alternativ­a all’ulteriore giro di cognac resérve; che il portiere di notte sia sufficient­emente discreto da dimenticar­e il mattino quello che ha visto la notte, che la giovane attrice non gli chieda mai se la ama o una parte dopo una cattiva replica, che la costumista sappia abbozzare le sue misure quando ha preso qualche chilo durante la tournée, che l’ufficio stampa non lo chiami mai con cattive recensioni vicino la digestione, che l’amministra­tore di compagnia ricordi i suoi ultimi legami amorosi e sappia con discrezion­e chi e in quale ordine far entrare in camerino, che il pro- duttore scritturi almeno un paio di attori comprimari per fargli buona compagnia in viaggio e a cena, che una vecchia amica vada a vedere per lui gli spettacoli dei colleghi e gliene parli male, e via elencando tutti i candidati alla santità che vivono per mantenerlo in vita. Gianni Santuccio, un grande mattatore, che fu paladino in molti spettacoli di Giorgio Strehler, sosteneva che un vero attore dovrebbe essere orfano e sterile: cioè occuparsi solo di sé.

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