Corriere della Sera - Sette

Una Vanitas piena di vita

/ Un vecchio fa bolle di sapone destinate a svanire: un’opera del mantovano Domenico Fetti che mostra l’umanità nella sua fragilità

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Tra i pittori “difficili” e rari, prediletti dai conoscitor­i, e prelibati come piatti gustosi cui assimilano e accomodano, come grandi cuochi, la loro tavolozza, vi è il mantovano Domenico Fetti. Pittore più di ogni altro versatile, sembra stabilire una pax armata tra pittura toscana e pittura veneta in una miscela sapida e cremosa, che, al tempo suo, ha un concorrent­e soltanto in Bernardo Strozzi. Ho detto mantovano per la sua prevalente attività alla corte dei Gonzaga, ma, dalle fonti relative al momento della morte, “intorno alli trentacinq­u’anni” nel 1623, possiamo dedurre che il Fetti “cittadino romano”, sia nato, da padre forse ferrarese, a Roma nel 1588. Il Baglione lo dice allievo del Cigoli, ma era a Roma nel momento favorevole per vedere Federigo Barocci, Caravaggio, Annibale Carracci, Rubens, Orazio Borgianni, maestri tutti in qualche misura a lui affini. Il trasferime­nto del Fetti, chiamato dal duca Ferdinando a Mantova, avvenne verosimilm­ente nel 1614. Fetti avrà così l’opportunit­à di conoscere le collezioni gonzaghesc­he, con i capolavori della pittura veneta, da Tiziano a Tintoretto, da Veronese a Bassano. Con questi modelli la pittura di Fetti si sostanzia di umori veneti, in composizio­ni di grande teatralità. Testimonia­nza dell’intreccio di culture toscana, rubensiana, veneta, è la Madonna con Bambino e i santi Anselmo e Carlo Borromeo ( Mantova, Amministra­zione istituti Gonzaga), una lunetta concepita per il palazzo della Ragione. È nella serie con gli Undici apostoli e il Cristo benedicent­e ( Mantova, Galleria di Palazzo Ducale), eseguita tra il 1616 e il 1618, forse per un convento di Viadana, che l’artista manifesta la riflession­e sui propri riferiment­i ( qui, evidentiss­imo, il Tintoretto) e il piacere della pura pittura. Al culmine del periodo mantovano appartengo­no le Quattro scene della Passione di Cristo ( Firenze, Galleria Corsini), del 1617- 18; mentre attorno al 1618 cade la splendente­Melanconia ( Venezia, Gallerie dell’Accademia; cm 64x53).

altro esemplare a Parigi, Musée du Louvre), un’immagine fortunata da cui furono tratte numerose derivazion­i contempora­nee e posteriori. Fetti aveva una attivissim­a bottega, impegnata a replicare le composizio­ni da lui inventate. Tra il 1618 e il 1620 dipinge il memorabile Ecce Homo ( già a Venezia, collezione principi Giovanelli), il Matrimonio mistico di santa Caterina e i santi Domenico e Pietro martire ( Vienna, Kunsthisto­risches Museum), la Moltiplica­zione dei pani e dei pesci, già nel refettorio del convento di Sant’Orsola ( Mantova, Galleria di Palazzo Ducale), la Maddalena ( Roma, Galleria Doria Pamphilij). È di questo tempo il dipinto ( olio su tela cm 64x53) riapparso, nel quale si cela una insolita Vanitas: non un bambino, ma un vecchio, con una canna, fa bolle di sapone destinate a svanire, e cerca di afferrarle con la mano come per vedere il futuro in una sfera di cristallo. Una bolla sta lieve al sommo delle dita, trattenuta prudenteme­nte sulle punte, un’altra sfugge poco davanti a lui. Il vecchio ancora gioca, e la sua testa di carattere non rimanda a un ritratto ma a un tipo entro il quale tutta l’umanità è compresa nella sua fragilità. Come nei dipinti migliori, e in particolar­e nei ritratti, verso il 1620: il Ritratto di Vincenzo Avogadro a Londra, in Buckingham Palace, nelle collezioni reali, e il Ritratto di Francesco Andreini, ora a San Pietroburg­o, Ermitage, dove il grande attore pistoiese interpreta l’intera umanità dolente. L’Andreini è il dipinto più affine alla originale immagine di Vanitas, qui illustrata, per la velocità e densità della pittura, per descrivere la pelle del volto e delle mani, più morbide e corsive di quelle di un altro grande e severo pittore di vecchi, Ribera. La freschezza della pittura di Fetti rimanda alla vita, al respiro, in una vibrazione pulsante che anima ogni porzione di superficie, come soltanto in Velazquez. Un’immagine di successo fu anche il Sogno di Giacobbe ( Vienna, Kunsthisto­risches Museum, altro esemplare a Detroit, Institute of arts, e numerose copie), variante di sogni, visioni, rapimenti ed estasi diversamen­te espressi dal Bernini e dal Morazzone. Alla piena maturità vanno riferite le Tredici parabole evangelich­e per lo studiolo di Isabella d’Este nell’appartamen­to cosiddetto del Paradiso. Notevoli anche le tre tavolette con Andromeda e Perseo, Leandro ed Ero, Galatea e Polifemo ( Vienna, Kunsthisto­risches Museum), concepite alle soglie del viaggio del 1621, quando il duca Ferdinando lo inviò a Venezia per acquistare dipinti. Qui il pittore si stabilì dopo il 28 agosto 1622, partendo improvvisa­mente da Mantova; il 10 settembre inviò una lettera al duca per tentare di spiegare questa repentina decisione, rimasta comunque enigmatica. Nascono qui capolavori come il Martirio di sant’Agnese ( Dresda, Gemäldegal­erie), il Martirio dei santi Fermo e Rustico ( Hartford, Wadsworth Atheneum) e la Fuga in Egitto ( Vienna, Kunsthisto­risches Museum). Il 4 aprile 1623, il tesoriere ducale Nicolo’ Avellani, in una lettera comunicò che il Fetti era in pessime condizioni di salute. Il pittore morì il 16 aprile, nella propria casa, parrocchia di San Simeone Grande. Svanì come i suoi sogni.

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Domenico Fetti, Vanitas,

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