“Class action” per le alghe
/ Avvocati australiani per 13 mila coltivatori in rovina dopo il disastro del petrolio
«Se la società thailandese Ptt pensa di evitare di risarcire i danni perché le sue vittime, i coltivatori di alghe, sono indonesiani, o peggio ancora perché non conoscono i loro diritti, si sbagliano». Di grosso, dovrebbe aggiungere Ben Slade. Non lo fa, perché non è un’espressione elegante per un avvocato in doppiopetto gessato della Maurice Blackburn Lawyers di Sydney. Ma “grosso” è proprio il termine giusto per definire il risarcimento richiesto dallo studio legale di Slade per i suoi assistiti: 136,5 milioni di euro. Un “caso” da film, verrebbe da dire guardando la “class action” avviata davanti a un giudice federale australiano: a sperare nel rimborso sono, infatti, 13 mila lavoratori di una delle regioni più sperdute dell’Indonesia, Nusa Tenggara orientale, che devono i loro introiti alle alghe coltivate e vendute a industrie alimentari, cosmetiche, farmaceutiche e agricole (come fertilizzanti). Nel 2009, esattamente in questi giorni di agosto – sostiene il ricorso – il più grave incidente avvenuto a un impianto di estrazione petrolifero in Australia ha colpito anche loro, che pure erano a 200 chilometri di distanza: dopo l’esplosione di una piattaforma nel mare di Timor vennero riversati (l’abbiamo ormai dimenticato) 300 mila barili di greggio per più di 10 settimane, prima che la perdita fosse domata. «Tutti i coltivatori della zona videro l’acqua degli allevamenti cambiare colore e riempirsi di pesci morti. I raccolti sono andati perduti per anni», racconta il più determinato di loro, Daniel Aristabiulus Sanda (al Sydney Morning Herald). «Ero disperato, non potevo mantenere più la mia famiglia, mandare i miei figli all’università», ricorda oggi. Solo nel 2013 i raccolti hanno cominciato a tornare alla normalità. «Sei anni, 11 mesi e 10 giorni di lotta: è stata lunga ma ora avremo i nostri diritti riconosciuti», aggiunge Ferdi Tanoni, il presidente della West Timor Care Foundation, che da allora ha combattuto per avere un risarcimento per la comunità. Come andrà a finire, ovviamente non lo sa nessuno. La società incriminata, la Pttep Australasia, ha dichiarato di essersi assunta sempre la responsabilità per il danno ambientale provocato ma ha già annunciato la linea di difesa: secondo le immagini satellitari, gli studi scientifici e i modelli presentati dai loro avvocati, la perdita non può essere arrivata a colpire i coltivatori di alghe, troppo lontani. Sarà una lunga battaglia: ma i 13 mila accusatori, a differenza di quanto avviene nei film, non rischieranno di finire i soldi per gli avvocati. A finanziarli, infatti, ci sarà l’Harbour Litigation Funding, società inglese specializzata proprio nel partecipare a questo tipo di cause: «Siamo molto contenti di poter sostenere chi non ha i mezzi», dice Ruth StackpoolMoore dell’ufficio asiatico. In cambio, ovviamente, prenderà una fetta dell’eventuale risarcimento.