Quella bomba a orologeria dei derivati
Al di là dell’esito della procedura di risarcimento per danno erariale alla Morgan Stanley, il tema di questi prodotti finanziari merita attenzione per tre motivi
Ètutt’altro che una questione solo di soldi. Ma foss’anche solo questo, allora dovrebbe calamitare almeno 27 volte l’attenzione riservata al passaggio di Paul Pogba dalla Juve al Manchester United per 110 milioni, o 80 volte lo spazio conquistato dallo sbarco in Cina dell’azzurro Graziano Pellè per 38 milioni di stipendio biennale. E invece è quasi scivolato via che la Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, in una procedura di danno erariale, abbia avviato la richiesta alla banca d’affari americana Morgan Stanley di risarcire 2 miliardi e 879 milioni di euro per le clausole di estinzione anticipata assicuratele dal ministero del Tesoro italiano nel 1994, e fatte valere dalla banca a fine 2011/ inizio 2012 ( dopo il declassamento operato da Standard & Poor’s, lo spread a 500 punti, le dimissioni di Silvio Berlusconi e la formazione del governo tecnico di Mario Monti) per chiudere in anticipo cinque contratti derivati che il Tesoro aveva aperto tra metà anni ’ 90 e il 2005 allo scopo di assicurarsi dal rischio di rialzo dei tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico. Tassi in quegli anni così alti da spingere i tecnici del Tesoro a « neutralizzare il pericolo di un’impennata tale da mettere a repentaglio la tenuta dei conti pubblici » . Ma al di là dell’esito delle future sentenze contabili, già ora il tema dei derivati ( prodotti finanziari che si chiamano così perché il loro valore deriva dall’andamento del valore di una attività sottostante) meriterebbe ben altra attenzione per almeno tre motivi. Uno è capire se nel riconoscimento nel 1994 a Morgan Stanley della clausola di estinzione unilaterale dei contratti, azionata dalla banca nel 2012 per incassare come da contratto i quasi tre miliardi dal La procedura di risarcimento è stata avviata alla banca d’affari americana Morgan Stanley dalla Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti. Tesoro, abbia pesato sul versante italiano la scelta di non voler prestare una garanzia collaterale perché essa avrebbe fatto salire deficit e debito, cioè i parametri che si volevano invece mostrare in discesa per entrare e restare nell’eurozona.
BUCHI DI BILANCIO. Il secondo motivo è che, anche dopo che negli scorsi anni una serie di indagini penali ( a partire da quella sui derivati del Comune di Milano) ha avuto l’effetto di far cambiare la legge e vietare agli enti locali di usare questi strumenti finanziari per dilazionare nel tempo i propri buchi di bilancio, resta di dimensioni imprecisate la “bomba a orologeria” potenzialmente ticchettante nei derivati sottoscritti dal Tesoro. Non esiste un formale segreto di Stato su questi contratti ma poco ci manca, nel senso che i tecnici del Tesoro in tutti i governi tendono a preservare la riservatezza delle condizioni per evitare turbative sul debito pubblico. Né aiuta il fatto che nei contratti derivati, per loro natura, sia arduo preventivare oggi quale possa essere fra vent’anni il saldo delle singole “scommesse” finanziarie ad essi sottostanti: sicché calcolare ( come in una stima del 2014) che, se in quel momento tutti i contratti fossero stati di colpo chiusi, lo Stato avrebbe perso 42 miliardi, puó essere aritmeticamente magari vero ma assai poco significativo nella realtà. Eppure proprio per questo conta reclamare almeno quel minimo grado di trasparenza fattibile da subito: rendendo pubblici i tipi di contratti sottoscritti, le banche controparti, gli indici sottostanti, e ogni anno il parziale dei guadagni e delle perdite per lo Stato. La terza ragione prescinde da questa specifica vicenda contabile- giudiziaria e vale più in generale, a margine di un paio di eterogenei dettagli. Uno è che Morgan Stanley possedeva il 2,75% di McGrawHill Financial, che a sua volta controllava Standard & Poor’s quando l’agenzia declassò il debito pubblico italiano; l’altro è che di Morgan Stanley è stato vicepresidente e riferimento della filiale italiana un ex direttore generale del Tesoro e poi ex ministro dell’Economia quale Domenico Siniscalco, un po’ come ad esempio identica provenienza ha l’attuale capo ( Vittorio Grilli) dell’area italiana di Jp Morgan, altra banca d’affari americana di recente schierata nel progetto di “salvataggio” del Montepaschi di Siena. Nulla di vietato in entrambe le circostanze, ovviamente, ma forse due occasioni per riflettere sul fenomeno delle porte girevoli sia tra banche e società di rating, sia tra grand commis dello Stato e istituti di credito internazionali.