Lo scempio del mondo
Le parole sono superflue davanti allo scempio di un terremoto che miete vittime a caso. Hanno solo senso se concedono un alito di sollievo al dolore dei sopravvissuti. Le altre parole sono quelle di sempre, di incredulità di fronte a un Dio, per chi ci crede, così spietato, disumano. Anzi, così “umano”, capace di falciare con indifferenza – a decine, centinaia, migliaia – quelle che per ognuno di noi sono invece il tutto, vale a dire le vite. Così fanno gli uomini da sempre, con guerre, sopraffazioni, egoismi, ingiustizie, indifferenze. Gli antichi greci, per trovarne un senso, rappresentarono gli dei come entità arse dagli stessi furori umani, come a dire che l’ingiustizia non ha bisogno di essere commessa da un uomo per realizzarsi. Ma sono riflessioni sterili, elucubrazioni che portano lontano, perché la spiegazione che vorremmo non arriverà mai, se non in termini scientifici, di esecuzione meccanica. Noi, invece, avremmo bisogno di credere che la giustizia e il bene abitano da qualche parte e prima o poi giungeranno a governare il mondo. Purtroppo, questo mondo ce lo dobbiamo governare da soli, con i comportamenti che hanno consentito all’umanità di non soccombere, vale a dire rialzarsi quando si è caduti, ricostruire quanto è andato distrutto, trovare la forza dentro alla disperazione, osservare ciò che accade a noi attruibuendogli lo stesso valore se accade agli altri. Ecco perché sono più utili il silenzio, la riflessione, la comprensione. Mentre sfogliavo i giornali con le drammatiche immagini di Amatrice e degli altri paesi distrutti, ho pensato a un libro letto qualche anno fa e sono andato a riprenderlo. Lo scempio del mondo è il titolo e autore è un grande storico olandese vissuto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del ’ 900: Johan Huizinga ( il suo saggio Autunno del Medioevo fece epoca). L’ha scritto nel 1942, in esilio mentre l’Europa era devastata dalla furia nazista. Già molto anziano, non potendo accedere alle biblioteche e agli archivi frequentati nella sua vita di storico, cercava nei ricordi e nell’esperienza appigli per immaginare come la vita avrebbe dovuto ricominciare, ripartendo su un binario più stabile. Li trovò in un’opera giovanile di Dante, il Convivio. Al quarto capitolo del quarto trattato il poeta scrive: « Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo il vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice… » . Dante elaborava per primo il concetto di Civiltà arricchendolo dei valori morali che all’antichità romana mancavano. La sua “felicità”, compito dei governi, non passa per il possesso, la ricchezza o le comodità, bensì attraverso lo spirito e l’intelletto. Riguardando le immagini di Amatrice, queste restano parole. Ma riflettendo in silenzio su Amatrice e sui mille altri disastri, umani e “divini”, a cui assistiamo ogni giorno, possono diventare spiragli di luce.