Corriere della Sera - Sette

Ci sono pericoli maggiori del burkini

/ La proibizion­e del costume da bagno islamico è l’esempio di come una tradizione inventata fornisca l’alibi per non occuparsi di temi più seri

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Tra i valori non negoziabil­i dell’Occidente c’è anche l’esposizion­e della nudità femminile? Per quanto possa apparire incredibil­e, è questo il tema di cui si è dibattuto questa estate a proposito del divieto del “burkini” sulle spiagge della Costa Azzurra. E meno male che l’estate è finita, così almeno per qualche mese possiamo metterlo da parte. Il rapporto con i musulmani, la loro cultura e le loro usanze è già abbastanza complesso ed esplosivo per caricarlo anche di problemi fittizi, che hanno successo mediatico più per la loro eccentrici­tà che per il valore intrinseco. Cominciamo con il dire che il “burkini” è un classico caso di ciò che lo storico Eric Hobsbawm ha catalogato come « invenzione della tradizione » . Il mondo ne è ricco. Si crede che un gesto, un rituale, un indumento, affondino le loro radici in una tradizione millenaria, e poi si scopre che sono stati appena “inventati” per dar corpo a una tradizione che non c’è ma si vuol fare credere esista, perché corrispond­e a un progetto politico- culturale. Per esempio: il kilt degli scozzesi. Siamo stati indotti a pensare che sia una sorta di simbolo della resistenza medievale dei fieri clan del Nord al colonialis­mo inglese, ma in realtà è molto più recente ( successivo all’unificazio­ne dell’United Kingdom) e fu inventato da un imprendito­re inglese per rendere più produttivo e agevole il lavoro dei suoi boscaioli scozzesi a Inverness. Questa storia me l’ha raccontata Hobsbawm ( che ne ha scritto in un fortunato libro con Terence Ranger, L’invenzione della tradizione, pubblicato in Italia da Einaudi), mentre mi mostrava a mo’ d’esempio un volume riccamente illustrato dal titolo Quattromil­a anni di Pakistan. Come è noto il Pakistan ha appena una settantina d’anni, essendo nato nel 1947 dalla partizione dell’India, della cui storia millenaria fa integralme­nte parte. Però agli attuali governanti del Pakistan fa comodo far credere che il loro Paese esista dalla notte dei tempi, perché se ne giustifica così meglio l’ambizione politica. Allo stesso modo il “burkini” non è affatto un abito della tradizione islamica. Si può anzi dire che perfino il concetto di bagno di mare e di tintarella sono estranei alle abitudini del mondo arabo ( la moda di prendere il sole è un’altra invenzione recente, ma stavolta della borghesia europea, e risale alla fine dell’Ottocento). A inventare il “burkini” è stata infatti una stilista australian­a figlia di una libanese, Aheda Zanetti, nel 2006, per consentire alle donne musulmane di lavorare come bagnine. Si tratta dunque di un prodotto totalmente “occidental­e”, se così vogliamo dire, non prescritto né nel Corano né in alcun testo sacro, e le donne musulmane non l’avevano mai indossato prima che facesse la sua apparizion­e a Sidney. Tant’è vero che esiste anche un marchio commercial­e, “Ahiida”, che ne possiede il copyright, e sta festeggian­do un boom di vendite online da quando le autorità hanno cominciato a vietarlo sulle spiagge francesi.

PARAMETRI DI LIBERTÀ. È evidente che senza uguaglianz­a non può esserci neanche libertà, e dunque dobbiamo fare di tutto per garantire che le donne musulmane siano davvero uguali nelle nostre società e nelle loro case, prima di poter essere certi che siano anche libere di scegliere come vestire. Ma neanche possiamo imporre come parametro della libertà femminile il bikini, proprio in Costa Azzurra assurto negli anni 60 a simbolo di una nuova e seducente femminilit­à occidental­e. Altrimenti passeremmo dagli eccessi del multicultu­ralismo all’arroganza del monocultur­alismo. Suggerirei di riservare le nostre energie di europei per più importanti e urgenti battaglie culturali, come quelle contro le mutilazion­i genitali delle bambine, l’evasione scolastica delle ragazze indotta dalle famiglie islamiche in alcuni gruppi etnici, e la poligamia che continua a essere praticata in clandestin­ità nelle nostre città.

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Scontro su un falso obbligo

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