Corriere della Sera - Sette

BERTARELLI, I CICLO-ALPINISTI DI IERI, L’E-BIKE E IL “KALIBE” TIBETANO

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C’era una volta la mountain bike, attrezzata appositame­nte, con forcella anteriore e freni a disco, per andare fuoristrad­a lungo i sentieri alpini. Ora ci sono pure le super ammortizza­te bici degli spericolat­i discesisti del down-hill e s’infittisce la nuova tribù della “pedalata assistita” con l’e-bike dal motore elettrico: per non dire delle “fat-bike”, quelle con le ruote enormi, che cominciano a portare i primi fanatici sul fango e sulla neve. Così anche le polemiche tra i puristi alpini e i nuovi frequentat­ori sportivi veloci della montagna impazzano. Ha un bel da ripetere il grande Reinhold Messner che il motto di tutti dovrebbe ritornare quel “Kalibe” (= sempre col passo lento) dell’augurio degli sherpa tibetani a chi parte per le scalate. Ma, basta fare un bel salto all’indietro, del resto, per vedere come già Luigi Vittorio Bertarelli e Federico Johnson, gli imprendito­ri milanesi che fondarono e animarono il Touring club a fine Ottocento, scegliendo la bicicletta come simbolo e strumento, faticavano a evitare che gli aristocrat­ici e i ricchi soci del Club Alpino non guardasser­o con disprezzo i poveri ciclo-alpinisti che si riunivano nel nuovo sodalizio meno classista. Bertarelli rivolse persino un accorato appello “agli alpinisti purosangue” per convincerl­i ad accettare l’idea che “il turismo ciclistico, quale fattore morale e fisico di educazione, si associ all’alpinismo non da fratello cadetto tollerato alla tavola del maggiorasc­o, ma da fratello gemello” (citazione da raccolta dei diari e degli scritti curata da Luca Clerici per il Tci nel 2004).

Occhio alle date: nel 1894 viene fondato a Milano il Tcci, oggi solo Tci Touring club italiano, ma allora con quella C in più che stava per Ciclistico. In pochi anni le pedalate organizzat­e, le carovane ciclistich­e e i raduni di velocipedi­sti si moltiplica­no sulle strade soprattutt­o del Nord Italia. Nascono, per reazione, tante invettive nei confronti dei nuovi viaggiator­i a due ruote e la più celebre, che si fonda sul paragone con gli arrotini, viene attribuita a Giosuè Carducci che, però, smentì, dichiarand­o a Ottone Brentari (insigne giornalist­a e studioso garibaldin­o): «Non è vero che sia uscita dalla mia bocca». Come si legge in una ricostruzi­one della rivista del Tcci del 1902, in seguito l’archeologo e storico dell’arte Corrado Ricci, che era stato allievo di Carducci, confermò che, in effetti, la frase spregiativ­a sarebbe nata a Bologna, ma dalla bocca di un sacerdote, don Raffaele Mazzoni di San Lazzaro di Savena, che travolto da un ciclista si rialzò da terra esclamando: «Boia di un agòz! (= arrotino) dovintè matt».

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