Airbnb contro le cause per discriminazione
Ad appena otto anni dalla sua fondazione, Airbnb, il sito web che ti fa trovare una stanza o un appartamento in affitto “short term”, in genere per pochi giorni, in giro per il mondo, si è ormai allargato a 34 mila città di 191 Paesi. Gli investitori valutano la società di San Francisco ben 25 miliardi di dollari. Cioè, tanto per fare un paragone, più del doppio di Starwood: il gigante degli alberghi che controlla, tra le altre, le catene Sheraton, Westin, Meridien e W. Con Airbnb puoi ormai trovare la villa di superlusso in un atollo remoto o il letto “low cost” (39 dollari a notte) con vista sulla skyline di Manhattan offerto da un ex tassista che ha riconvertito il suo “taxi cab”, un vecchio minivan Honda, in spartana camera da letto (priva, ahimè, di bagno) parcheggiato a Long Island City, a Queens, sulle sponde dell’East River. Insomma, gli affari vanno a gonfie vele nonostante i tanti ostacoli amministrativi (a New York, ad esempio, lo “short term rental” sarebbe vietato e gli amministratori dei condomini cercano di applicare con severità questa proibizione). Ma adesso per la società fondata da Brian Chesky spunta un’altra minaccia: le cause per discriminazione dei clienti respinti dagli alloggi per motivi di razza, sesso, età o altro. La società è subito corsa ai ripari: per studiare il caso e trovare una soluzione ha chiamato addirittura l’ex ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder. E ora ha deciso di obbligare chi affitta con Airbnb a firmare un “community commitment” che entrerà in vigore il primo novembre: un patto che vieta esplicitamente ogni tipo di discriminazione. E, per ridurre il rischio di aggiramenti della norma, Airbnb sta ampliando il ricorso all’”instant booking”: affitto immediato dell’alloggio sul mercato, senza bisogno dell’approvazione da parte del proprietario.