Tollerare il successo
L’eredità Caprotti e l’invidia sociale in un Paese più nichilista che cattolico
L’ eredità Caprotti è una straordinaria storia italiana. In tempi più felici per la nostra letteratura e il nostro cinema, sarebbe forse stata il titolo di un grande romanzo, di un film da ricordare. Gli spunti sono infiniti: le rivalità tra i figli e tra le mogli, la fortuna della segretaria, il Manet donato al Louvre a patto che sia esposto accanto al Tiziano che lo ispirò, le attenzioni per i nipoti, l’autorizzazione a vendere l’azienda ma preferibilmente non agli spagnoli e di sicuro non ai comunisti. Tra i vari passi del romanzo Caprotti, il più interessante è forse questa annotazione: Esselunga « è a rischio. È troppo pesante condurla, pesantissimo possederla. Questo Paese cattolico non tollera il successo » .
I CONTI CON IL CAPITALISMO. Il tema è reale. Il sogno di molti imprenditori sembra sia diventato vendere, se possibile agli stranieri, per togliersi di dosso il peso del fisco, della burocrazia, dello Stato, del fardello che chi lavora seriamente in Italia si trascina dietro. E di questo fardello l’invidia, per non dire l’odio sociale, è una componente non trascurabile. Siamo un Paese che non ha fatto i conti con il capitalismo, che ha un rapporto irrisolto con il denaro. La ricchezza viene ora esibita e applaudita sul web, ora denigrata come un crimine. Un buon stipendio viene usato come arma di insulto, di pressione, di ricatto. Senza distinguere mai tra il manager cui viene pagato il merito e il manager cui viene pagato lo status, indipendentemente dai risultati. Tra il politico che si assegna da sé lo stipendio con soldi pubblici e il dipendente del settore privato che versa tra tasse e contributi oltre la metà di quel che incassa. Tra i denari guadagnati onestamente e quelli no. Tra chi crea posti di lavoro – e Caprotti li ha creati – e quelli che li distruggono, come Jeff Bezos e gli altri eroi della rivoluzione digitale che sta rimbecillendo il mondo e creando un pianeta di disoccupati. ANNI AGRI. Certo, a leggere l’elenco delle ville di Caprotti un brivido di invidia – sentimento non particolarmente nobile ma non estraneo all’animo umano – può venire. Passi per l’appartamento sul Golf di Monticello a Cassina Rizzardi; a noi che possiamo permetterci al massimo il minigolf ( se non altro per mancanza di tempo) e non sappiamo dove sia Cassina Rizzardi, non importa molto. Ma poi la casa di via Bigli a Milano, quella di New York sulla Quinta Strada, il castello di Bursinel sul lago di Lemano, la proprietà di Fubine nel Monferrato con “la casa di caccia e altri quattro cascinali”, il palazzo di Egerton Terrace a Londra valutato otto milioni di euro, la tenuta di “alcuni chilometri” sul mare a Zonza nel Sud della Corsica, la casa di Skiatos in Grecia… Se penso al bilocale di mio nonno a Borghetto Santo Spirito, mi dico che il tema della redistribuzione della ricchezza esiste. Non so quello di Caprotti, ma non c’è dubbio che i grandi patrimoni – che fine hanno fatto i Panama Papers? – nel mondo globale si involano volentieri lontano dal rapace fisco europeo, che si avventa senza difese sul ceto medio impoverito. Però insomma i Caprotti di ricchezza ne producono molta anche per gli altri. E invidiare il successo altrui non è solo meschino; non aiuta certo a migliorare se stessi. Mi chiedo se davvero tutto questo dipenda dal cattolicesimo, come ipotizzava Caprotti. Forse conta di più lo spirito nichilista, livoroso e rancoroso che agita gli anni agri di questa crisi che non passa mai.