1968
nel mito del cambiamento. Ne ho parlato più volte ( Sette n. 27 del 06/ 07/ 2012), raccontandone e recuperando da spettatore la dimensione leggendaria di quell’anno. Da appena giovane, subivo il fascino dei giovani grandi. Loro, con soli quattro anni di più potevano tutto: prendevano la parola in assemblea senza sembrare cretini, fumavano, discutevano, socializzavano ed erano ascoltati non solo dai matusa, ma anche dalle giovani. Le nostre coetanee guardavano i giovani grandi, con gli stessi nostri occhi persi, in modo tale da tagliare noi tutti quattordicenni, spettatori consapevoli del mito in corso. Dopo anni, gli appena giovani e i giovani grandi trasformeranno gli eventi in mito, raccontando il ’ 68 come l’Atlantide del Novecento, un’età dell’oro perduta definitivamente, perché rifluita nella storia di sempre. Da quel momento, le parole si intrecciano, si rincorrono, fiancheggiano la storia ufficiale con un ritorno potente alla narrazione orale. Perché – in definitiva – la storia si costruisce da sempre con le Storie e poco importa se queste siano più o meno fedeli ai fatti, soprattutto quando questi escono dal reale ed entrano nella dimensione del ricordo di più generazioni: le generazioni degli appena giovani, dei giovani grandi e dei matusa, tutti protagonisti e segnati comunque da quel cambiamento. La scansione degli avvenimenti è oramai da tempo nei libri di storia: Valle Giulia a Roma, le manifestazioni in piazza in tutta Europa, gli studenti, gli operai, gli “studenti ed operai uniti nella lotta”, il maggio francese, le università occupate, i capi della rivolta, giovani grandi incendiari prima, ex rivoluzionari di - anta anni poi diventati pompieri e così via. Parallelamente si sviluppa l’epica con milioni di parole scritte, dette al vento
Verso la fine del XVI secolo Spenser scrive: « Il suo nome scrissi un giorno sulla sabbia / ma vennero le onde e lo lavarono via »