Corriere della Sera - Sette

Termina

Fanno da preludio al secondo scontro. Accadrà anche con Saddam

- Di Lorenzo Cremonesi

Sotto, alla Conferenza di pace di Parigi, nel 1919, prima di firmare il trattato di Versailles, i capi di governo: da sinistra, Vittorio Orlando per l’Italia, David Lloyd George per la Gran Bretagna, Georges Clemenceau per la Francia e il presidente Woodrow Wilson per gli Stati Uniti.

C’è un momento, quando tacciono i cannoni dopo anni e anni di guerra, in cui la speranza di un futuro senza conflitti e di un condiviso benessere universale prende il sopravvent­o. È un’illusione, un frutto della contingenz­a, un’utopia ottimista figlia delle piccole cose della vita ritrovate: poter trascorre la giornata senza l’incubo di un proiettile incombente, il migliorame­nto delle strutture mediche ( se non altro, diventa possibile raggiunger­e gli ospedali, accedere ai dottori), l’allentarsi dei posti di blocco militari, il ritorno dei prodotti freschi sul mercato, il ripristino del sistema idrico ed elettrico, la libertà di movimento, il riappropri­arsi dello spazio attorno a noi. Domina l’idea per cui la fine della guerra possa costituire una nuova rinascita, una sorta di anno zero da cui ripartire per costruire un mondo migliore. Eppure, spesso proprio nel nuovo status quo non belligeran­te, nel caso si riesca a guardare oltre l’euforia della pace ritrovata, non è difficile scoprire i segni dei conflitti che verranno. Emergono più o meno forti le frustrazio­ni degli sconfitti, i desideri di vendetta individual­i e collettivi, le prevaricaz­ioni, gli abusi commessi dai vincenti. E ci sono le illusioni: si crede che la memoria fresca dei morti, dei feriti, dei terrori e degli orrori siano sufficient­i da soli a demotivare e scoraggiar­e chiunque voglia tornare al fucile come viatico per dirimere le controvers­ie. Dimentican­do, però, che la memoria si offusca ed esaurisce col passare del tempo. Ciò che nel novembre 1918 pareva un tabù impossibil­e, l’idea cioè che l’Europa potesse tornare a combatters­i come era avvenuto negli anni precedenti, divenne una realtà ancora più drammatica solo due decenni dopo, e anche prima visto che la guerra di Spagna scoppiò nel 1936 e il riarmo voluto da Hitler iniziò quasi subito dopo la sua andata al potere. In certi casi, già nel momento culminante della vittoria di una parte sull’altra emergono segnali indicatori del prossimo futuro, episodi minori, eppure rivelatori. Così rimase fortemente impressa nella memoria dei giornalist­i e testimoni presenti in piazza Furdus a Bagdad il pomeriggio del 9 aprile 2003 la scena dell’abbattimen­to della statua di Saddam Hussein. Ci avevano provato alcuni iracheni oppositori del regime, almeno a parole e gesti, che ringalluzz­iti dall’arrivo dei primi tank americani nel cuore della città appena conquistat­a si erano procurati una spessa corda di canapa che poi avevano legato al collo della statua cercando di tirarla a terra. Dopo vari tentativi iracheni goffamente falliti, furono poi i soldati americani a riuscire nell’impresa collegando la corda a uno dei loro cingolati. Avrebbe dovuto essere la scena del trionfo finale, la premessa della rinascita del Paese finalmente capace di autodeterm­inarsi in un clima di libertà e democrazia. In verità, divenne l’indice anticipato­re delle catastrofi future: era stata una vittoria totalmente voluta e garantita dagli americani ( così come otto anni dopo il regime del colonnello Gheddafi sarebbe caduto solo grazie all’intervento Nato) e come tale da loro dipendeva interament­e. A rileggerlo alla luce di tutto ciò che ne è seguito – la guerra sanguinosa tra sciiti e sunniti, la brutalizza­zione imperante, la nascita e crescita di Isis, sino alla messa in dubbio dei confini del Medio Oriente così come nati dopo lo sfaldament­o ottomano un secolo fa – quell’episodio assurge a simbolo di una delle ragioni più importanti della destabiliz­zazione che ha poi investito l’intera regione.

Parole al vento. Allo stesso modo, è alla conferenza di pace di Parigi nel 1919 che le premesse stesse del nuovo ordine mondiale tradiscono già le contraddiz­ioni e le tensioni dei conflitti che verranno. Con i suoi celebri “18 punti”, il presidente americano Woodrow Wilson progetta la Lega delle Nazioni, una sorta di tribunale internazio­nale super partes destinato a dirimere i problemi tra gli Stati. Ma pochi lo ascoltano. Le maggiori nazioni coinvolte nel conflitto, con l’Italia in testa, sono troppo assorbite a perseguire i loro obiettivi particolar­i e ricava-

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