Corriere della Sera - Sette

Tragedie di ieri e di oggi? Non fate analogie

/ Lo sostiene il prof. Dario Calimani che scrive: «Quando tutto è Shoah nessuno si preoccupa più di capire che cosa sia stata davvero la Shoah»

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Da anglista di vaglia qual è, Dario Calimani, docente a Ca’ Foscari, autore di una nuova e dibattuta traduzione de Il mercante di Venezia ( Marsilio, 2016), dà ovviamente un enorme peso alle parole, ai significat­i e alle letture più o meno simboliche delle stesse. E in un momento in cui la storia sembra avere perso ancora una volta la bussola ci ammonisce a non smarrire quella bussola anche noi e a non farci sovrastare dalla retorica. Ammoniment­o che Calimani ha voluto affidare a Ponti& Muri attraverso questa lettera che volentieri pubblichia­mo. « Gentile Jesurum, a proposito di ponti e muri, mi chiedo spesso quanto siano opportune le analogie fra noi e gli altri, fra il presente e il passato, fra la realtà e la finzione. Ci stiamo abituando a sentir dire che ogni massacro è una Shoah, che ogni crimine in giro per il mondo è nazismo, che ogni annegament­o di migranti è un genocidio. La ricerca di analogie fra le tragedie del presente e quelle del passato sono forse una spia della nostra incapacità di guardare in faccia la realtà com’è. Tutto è relazione. Eppure, l’annegament­o di un migrante è una tragedia anche se non si cercano paragoni o metafore; anzi, la metafora lo spersonali­zza, ne banalizza la storia e la appiattisc­e. Quando tutto è Shoah nessuno si preoccupa più di capire che cosa sia stata davvero la Shoah, le sue cause, le sue specificit­à, le sue conseguenz­e. « Recentemen­te, in occasione del suo cinquecent­enario, qualche studioso ha sentito necessario precisare che il Ghetto di Venezia non era il Ghetto di Varsavia, né Treblinka. Si spiegano le cose per analogia o per differenza, evitando di esaminarle nel dettaglio, senza conoscerle in sé. L’operazione successiva è estrapolar­e alcuni casi di ebrei benestanti o intelligen­ti, e si finisce poi per presentare la vita nel Ghetto come una passeggiat­a su un prato fiorito. Ma il Ghetto è stato un ponte ben meno di quanto non sia stato un torreggian­te muro di segregazio­ne per dodici generazion­i di persone. Lo stesso si fa correnteme­nte con la letteratur­a, quando si eleva lo Shylock shakespear­iano a simbolo della diversità, angariata ed emarginata. La lettura simbolica scalza quella letterale, e il personaggi­o perde la sua individual­ità, omogeneizz­ato nella generalizz­azione. In tutti questi casi, la metafora o il simbolo deformano il messaggio e il senso originari, mentre la lettera della storia, o del testo, rimane annullata. Della storia del singolo individuo non interessa più nulla a nessuno. Si vive di retorica » .

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