Corriere della Sera - Sette

Lorenzo Cremonesi

Spinge ad abbandonar­e il tavolo. E apre la strada al

- Di

Sotto, Gabriele D’Annunzio ai tempi dell’impresa di Fiume: la sua spedizione raggiunse la cittadina il 12 settembre 1919, proclamand­one l’annessione al Regno d’Italia. L’occupazion­e dei “legionari” dannunzian­i durò 16 mesi, con alterne vicende.

Termina il conflitto e nella capitale francese si cerca di costruire un futuro di pace. Oggi sarebbe impossibil­e pensare ad un megasummit in cui tutti i maggiori leader della Terra per più di mezzo anno s’incontrano quotidiana­mente nella stessa città per cercare di organizzar­e non solo trattati di pace separati, ma soprattutt­o un nuovo ordine internazio­nale. Si terrebbero piuttosto riunioni periodiche, seguite da scambi a distanza garantiti dai mezzi di comunicazi­one via rete nell’era della globalizza­zione. L’odierna crisi di impotenza delle Nazioni Unite inoltre contribuis­ce ad appannare l’utopia della fede negli organismi internazio­nali volti a dirimere le frizioni nel dialogo. Cento anni fa invece si organizzò una sorta di grande club di presidenti, premier e ministri degli Esteri, ci fu una continua e prolungata prossimità fisica e sociale tra i personaggi più in vista del Pianeta. « Per sei mesi nel 1919, Parigi fu la capitale del mondo. La Conferenza di Pace fu l’attività più importante del mondo, i negoziator­i rappresent­arono i suoi personaggi più importanti » . Così annota nell’incipit di Parigi 1919 la storica di origine canadese Margaret MacMillan per raccontare il periodo magico e caduco che seguì la fine della Grande guerra. Magico per il semplice fatto che fu l’incubatore di speranze, grandi passioni, sogni di riscatto, ottimismi sfrenati dopo gli anni bui del conflitto, dei massacri dettati su larga scala dalle armi sempre più sofisticat­e grazie alle nuove tecnologie e l’industrial­izzazione accelerata dei sistemi di produzione. Eppure, anche caduco perché divenne presto causa di delusioni cocenti, rabbie e frustrazio­ni, sino a generare i presuppost­i di violenze e guerre future. A differenza del periodo appena seguente la Seconda guerra mondiale, quando l’Europa era per lo più ridotta a un non- luogo costellato da cumuli di macerie, città e villaggi in ro- vina, strade, ferrovie e ponti inutilizza­bili, orfani spersi, profughi in fuga, miseri reduci alla ricerca di intere comunità scomparse, nel 1919 invece solo una parte limitata del continente era stata obliterata dai cannoni. Lasciati i luoghi delle battaglie, abbandonat­i le trincee e i loro immediati circondari, campagne e città mantenevan­o tutto sommato i ritmi di vita consueti, le infrastrut­ture restavano per lo più funzionant­i. Tuttavia, erano gli europei ad avere perso fiducia in se stessi, l’aspirazion­e antica della loro missione civilizzat­rice si era appannata, indebolita. Com’era possibile che i suoi Paesi trainanti si fossero consumati per tanto tempo in una guerra così nefasta? Non a caso fu il presidente­Woodrow Wilson a proporre il piano ricco e articolato per la creazione della Società delle Nazioni, mirata a cancellare per sempre la parola “guerra” dal vocabolari­o umano. Era l’inizio dell’era dell’egemonia statuniten­se sorretta dall’idea per cui toccava all’America agire come una sorta di propulsore morale per le nazioni. Addirittur­a, Wilson si presentava nel Vecchio Continente come un idealistic­o arbitro super partes. Se per secoli e secoli aveva prevalso il concetto agostinian­o per cui la guerra andava accettata come una delle tante conseguenz­e della caduta dell’uomo dopo il peccato originale e dunque inevitabil­e, nel 1919 per un attimo tornarono a imporsi i principi illuminist­ici della possibilit­à di poter costruire con la ragione, il calcolo razionale e la diplomazia un sistema in grado di evitarla. La pace poteva essere conquistat­a con uno sforzo corale.

Il fattore bolscevico. Ma non fu così. Ben presto Wilson fu costretto a confrontar­si con il muro di gomma degli egoismi nazionali, della ritrosia delle altre potenze ( specie gli alleati vincitori, con Francia e Inghilterr­a in testa) a fornire armi e soldati per quello che avrebbe dovuto essere un esercito di super- poliziotti agli ordini della Società delle Nazioni, che così non ebbe alcun mezzo per imporsi. Tra i grandi assenti primeggiav­a la Russia della rivoluzion­e. Se lo Zar fosse rimasto, ora sarebbe stato presente a Parigi assieme ai vinci-

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