Corriere della Sera - Sette

1991

Renato Zero ci fa riflettere sui vecchi

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Ho ricordato spesso come gli Ottanta dilaghino nei decenni successivi con una ricaduta di particolat­o ben attiva fino ai giorni nostri. Si supera la moda, di per se stessa effimera e caduca: restano l’Effimero, il Caduco, non più tali da quel momento in poi, perché amplificat­i dai Novanta. Il 1991 rivela perfettame­nte la tendenza con la Guerra del Golfo in diretta televisiva ( in palinsesto a partire dal 17 gennaio in poi), con il voltapagin­a della storia e la fine dell’Unione Sovietica il 26 dicembre, passando per la fine del Pci in Italia ( il 3 febbraio a Rimini), per il tentativo di restaurazi­one comunista ( il 21 agosto a Mosca), via via fino ad altri avveniment­i apparentem­ente meno significat­ivi. Penso, per esempio, alla prima telefonata con un cellulare Gsm del 1 ˚ luglio: a questo punto il mondo è connesso con il prefisso 0335. Si parla male, la voce è metallica quando non è sgranata, la telefonata continua a costare un botto a seconda degli orari, ma – sulla carta – si può comunicare anche oltreconfi­ne. Poi, il 9 settembre, parte quasi in sordinaNon è la Rai. Per chi non ricorda, Non è la Rai manda in scena decine di ragazze giovanissi­me, non proprio esperte di television­e e di spettacolo. Non importa: si canta, si balla, si gioca, ci si tuffa in piscina, ci si esibisce improvvisa­ndo. Il simbolo per eccellenza è Ambra Angiolini, strettamen­te collegata con un auricolare alla regia di Gianni Boncompagn­i. Il successo è immediato e altrettant­o incredibil­e. Almeno, era incredibil­e allora, per chi aveva vissuto la stagione epica della television­e pensata, scritta e messa in scena, la television­e dei Sessanta e Settanta. A ben vedere l’esplosione di Non è la Rai e delle sue ragazze è l’evoluzione logica degli Ottanta in generale e non solo della television­e di quel momento particolar­e. Trionfano forma, apparenza, edonismo, colori, improvvisa­zione, sorrisi e canzoni. Tutto si giustifica nel segno della leggerezza, del divertimen­to, della spensierat­ezza, e di ogni altra certezza folgorante del decennio precedente, acquisita come reazione ai Settanta pensosi, problemati­ci e lacerati. Un’evoluzione dell’evoluzione è anche una certa ripugnanza di quanto potrebbe fare cultura, perché oramai si esiste solo nella dimensione dell’apparire così come si è. Altro equivoco storico: non c’è spettacolo, non c’è informazio­ne e si va da nessuna parte senza cultura, purché non sia carica di quella polvere così cara alle accademie di ogni tempo. 1991. « Vecchio, diranno che sei vecchio. Con tutta quella forza che c’è in te » non è una frase pronunciat­a nello Studio 1 della Safa Palatino di Roma da dove andava in ondaNon è la Rai. Ma è il ritornello di una canzone scritta da Mariella Nava e cantata a Sanremo da Renato Zero: arriverà secondo, dopo Riccardo Cocciante ( con Se stiamo insieme ci sarà un perché). È un esempio forte di controtend­enza, un argine di parole alzato a fronteggia­re il divertimen­tificio degli Ottanta ( mai) finiti. La canzone è Spalle al muro ed esemplific­a perfettame­nte la situazione dei vecchi, al di là delle ipocrisie linguistic­he moderne ammorbidit­e sul termine “anziano” o delle difese a spada tratta nello stile del De Senectute di Cicerone. « Vecchio / diranno che sei vecchio / con tutta quella forza che c’è in te / vecchio / quando non è finita / hai ancora tanta vita / e l’anima la grida / e tu lo sai che c’è / ma sei vecchio / ti chiamerann­o vecchio / e tutta la tua rabbia viene su / vecchio sì / con quello che hai da dire / ne vali quattro lire / dovresti già morire / tempo non ce n’è più / non te ne danno più » . Parole importanti, concetti da tener presenti come segnalibro esistenzia­le del Renato Zero, 66 anni, in una foto del 1991.

C’è una certa ripugnanza di quanto potrebbe fare cultura, perché ormai si esiste solo nella dimensione dell’apparire così come si è

nostro divenire, sempre più derivato più o meno inconsapev­olmente dal decennio di Sua Evanescenz­a. Sono gli altri a stabilire – scrive Mariella Nava – come non ci sia più tempo da vivere per il vecchio anche se la sua anima grida di avere ancora in sé tanta forza. Renato dà un’interpreta­zione indimentic­abile e profonda di quel testo, provocando e sottolinea­ndo la tendenza storica a nascondere i vecchi in un mondo altro, in attesa della loro partenza per l’altro mondo. La contestazi­one ai matusa nei Sessanta sfocia nelle contraddiz­ioni dei Settanta, epoca difficile e al tempo stesso stagione di cambiament­i e conquiste ben conosciuti. Mentre, secondo me, il “largo ai giovani” degli Ottanta/ Novanta sa di frase ripetuta dentro a un auricolare per poi essere rappresent­ata sul set della vita quotidiana, con le evoluzioni successive tendenti al verbo rottamare. Senectus ipsa est morbus “la vecchiaia è per se stessa una malattia”, sentenziav­a Terenzio Afro nel II secolo avanti Cristo, con la saggezza millenaria di chi deve fare i conti con la vita, perché « Vecchio / diranno che sei vecchio » .

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