Libertà
Colpito da dure condanne per le sue critiche al regime, Jafar Panahi parla attraverso film clandestini amati dalla critica internazionale
Un prigioniero chiuso nella sua cella tende automaticamente a indirizzare lo sguardo verso quella parte di cielo che può vedere dalla finestra. “Imprigionato” nella sua casa di Teheran da una sentenza che lo obbliga a non girare più film per vent’anni ( per non parlare della condanna a sei anni di prigione che gli pende sulla testa), il regista iraniano Jafar Panahi ha anche lui alzato gli occhi verso il cielo e ha ripreso con la sua macchina fotografica le nuvole che si muovono sulla sua testa. Nasce da qui, dalle immagini che Panahi ha scattato e selezionato tra il 2013 e il 2014, la mostra che il Centre Pompidou di Parigi gli ha dedicato, accompagnandola con una retrospettiva integrale delle sue opere ( nella foto, Golnaz Farmani in Offside del 2006), cortometraggi degli inizi compresi, e che si può vedere fino al 13 novembre ( centrepompidou. fr). Si sbaglierebbe a considerarla un’iniziativa di ripiego, primo perché le immagini selezionate, alcune di grande formato, sono davvero molto belle, tutte curiosamente sviluppate in verticale, come a voler ritagliare una precisa porzione di cielo e attirare l’attenzione sull’impalpabile consistenza delle nubi e sul loro indefinibile disegno, dove spesso domina il grigio sempre più scuro di una tempesta imminente. Ma è evidente che il soggetto non è senza altri significati, politici e psicoanalitici insieme, perché quelle immagini rimandano con forza a una libertà che il regista non può usufruire, come a voler cercare nelle stampe di quelle nuvole che nessuno può imprigionare e imbrigliare il corrispettivo di quella