Innocenti evasioni
Il tema del “senso del dovere” fa piovere lettere in redazione: tutti ne sentono la mancanza e ne hanno nostalgia. Se non si fa qualcosa... Bene, occorre ripartire. Ma da dove? Forse dalla scuola?
Appartengo alla categoria ormai in via di estinzione delle casalinghe e la mattina, come sottofondo ai lavori domestici, ascolto i vari talk show di attualità a cui partecipano giornalisti e politici. I primi offrono la loro versione di lettura dei fatti (questo è il mestiere), i secondi si crogiolano in una elencazione compiaciuta di tutto quello che non funziona in questo Paese (dimenticandosi invece di essere stati eletti per amministrarlo e, in molti casi, di averlo fatto per periodi più o meno lunghi), attribuendone immancabilmente la colpa al governo di turno. I temi più ricorrenti sono lavoro, banche, evasione fiscale. E qui porto, ispirata anche dall’articolo di Sette sul senso del dovere, la mia esperienza spalmata su un ventennio che tocca i punti che ora tanto fanno accalorare i nostri rappresentanti; esperienza la quale peraltro, con declinazioni diverse, accomuna probabilmente buona parte del popolo italiano. Con una laurea in architettura faticosamente conseguita nel 1994, dopo 18 mesi trascorsi a fare lavori per nulla inerenti al mio corso di studi ho trovato una collaborazione con uno studio i cui componenti, dopo il mio arrivo, erano due e uno era il titolare. Ottimo professionista e persona umanamente ineccepibile, come molti colleghi si dimostrava per nulla propenso ad assumere con un contratto stabile visto il cuneo fiscale oggettivamente insostenibile per una realtà così piccola, oltre al fatto che l’assunzione creava un vincolo inscindibile peggiore del matrimonio. L’aspetto positivo era che comunque venivo pagata regolarmente, cosa non poi così scontata da quel che mi raccontavano tanti nella mia stessa condizione di praticante (da quel che leggo sul web, 20 anni sono passati e i neo architetti di oggi non se la passano tanto meglio). Con grande soddisfazione, sono andata in banca per sistemare i miei esigui guadagni; dopo un po’, stufa di dover mercanteggiare un interesse ridicolo sulla giacenza, ho malauguratamente deciso di investire il misero gruzzolo in titoli, senza alcuno scopo speculativo ma almeno senza rimetterci, visti i costi di gestione. Dato il rendimento nullo, se non negativo, ho chiesto lumi al consulente finanziario il quale, alle mie rimostranze, ha risposto con una frase memorabile: Non si preoccupi, sono titoli garantiti. Ce li ha anche mia nonna . Ho cambiato banca. Quando sono rimasta incinta e mi sono fermata a casa (ovviamente senza alcun trattamento di fine lavoro), il ginecologo di fiducia, o meglio la sua segretaria, alla fine di ogni visita mi poneva l’arduo quesito 120 con la ricevuta o 80 senza? . Vista la cadenza mensile delle visite per tutta la durata della gestazione, il monoreddito da lavoro dipendente e la detrazione al 19% per le spese mediche, l’opzione era sempre quella “pochi, maledetti, e subito”. Con la crescita della prole, sono entrata nell’imprescindibile e turbinoso circuito delle attività extrascolastiche. La proprietaria della palestra frequentata dalle figlie, alla richiesta della ricevuta da mettere in detrazione, con complice disinvoltura mi presentava fattura regolare ma con un importo pari al massimo della cifra detraibile per ogni figlio, cifra pari (allora) a 210 € a fronte di un esborso annuale di oltre 450€. E via continuando, con l’idraulico che ha avuto la faccia di chiedere a mia madre ottantenne 350 € esentasse per un’ora di lavoro, con il parrucchiere di fiducia che con faccia di circostanza ti dice Segno solo la piega, va bene? , con il gestore dello stabilimento balneare che espone lo Union Jack in segno di protesta contro le vessazioni dell’arcigna Europa (che, nella personificazione della Commissione di Giustizia, ha indicato come illegittima la proroga automatica delle concessioni demaniali fino al 2020 proposta dal Governo italiano), ti saluta con un caloroso All’anno prossimo! ma di fattura neanche a parlarne. Potrei proseguire all’infinito. Non me vogliano le categorie coinvolte in questa piccola cronistoria di italiche disavventure e “innocenti evasioni”, sono stata loro complice volontaria e non mi sento neanche di pretendere attenuanti dovute alle contingenze o al tornaconto personale. Fortunatamente ho incontrato tanti altri onestissimi che mi hanno fatto ricredere e sperare. Parafrasando Tolstoj, in Italia tutti gli evasori felici sono simili gli uni agli altri, ogni contribuente infelice è infelice a modo suo.
Apprezzo il richiamo di Sette n. 42 alla educazione al senso del dovere: mi trova totalmente d’accordo. La lezione di Hubbard è solo uno dei tanti esempi. Come si può fare, però, in Italia dove gli istituti deputati alla “formazione” e conseguente senso della società (ethos, intendo) sono stati annullati da generazioni “male educate” a recuperare il perduto senso del dovere? Parlo, per intenderci, di famiglia, scuola, chiesa, leva militare, azienda, apprendistato di “bottega”, partiti politici, patria e non paese, linguaggio sì sì, no no e non quello politicamente corretto a oltranza, e via elencando.... Avrei volentieri usato le maiuscole, ma temo di apparire nostalgico; penso però che contenere la supremazia (l’esclusività?) dei diritti rispetto ai doveri e trasformare, sia pure sul lungo periodo, i nostri concittadini in “cives” solamente grazie all’esempio di pochi uomini e donne virtuosi – ce ne sono ancora – sia una affascinante utopia. “Vaste programme”, come avrebbe detto Charles de Gaulle.
Ho insegnato 15 anni nei licei (5 lettere, 10 storia e filosofia). Il mio ambizioso lavoro con gli studenti di fine ciclo naufragava miseramente davanti alle scarse competenze e letture dei commissari di maturità. In effetti la maggior parte dei miei colleghi di allora (oggi non so) leggeva solo antologie e manuali scolastici (mi viene mente un collega palermitano, sorpreso da una zia a leggere un libro pochi giorni dopo la laurea: «Che leggi più, se ti sei già laureato?»). Ma non è proprio il caso, a mio parere, di dare la croce addosso agli insegnanti. Non basta la buona volontà, perché i libri costano. Perché stupirsi che in Italia si legge poco se la classe che più dovrebbe essere motivata a leggere non ha i soldi per comprare i libri? L’esito è inevitabile: a un salario low cost molti insegnanti rispondono con un servizio low cost. Se questa è la legge del mercato, perché la scuola dovrebbe fare eccezione?