Migranti:
Il primo fu Raffaele, deportato a nove anni. Poi i soldati in trincea, i condannati e i contadini del secolo scorso. Fino ai partiti o in arrivo sulle coste italiane
Sono quasi sempre le stesse le parole dei migranti: paura, dolore, fame, nostalgia, speranza, famiglia, fortuna, denaro, lavoro. Spesso anche “guerra” e “violenza”. In tutte le lingue, su tutte le rotte e in tutte le epoche, le maree umane sembrano provocare lo stesso rumore, lasciare le stesse tracce. Nel brusìo di fondo, quando si distingue una voce, pare di averla già udita, di aver già sentito quel racconto: da un italiano espulso dall’Istria negli anni 20 o dalla Libia negli anni 70. Da un rumeno sfuggito al regime di Ceausescu negli anni 90, da un eritreo scampato alla dittatura di Isaias Aferwerki, in questi anni. Magari da quell’ex dirigente d’impresa dell’Africa sub- shariana fotografato in giacca, cravatta e fermacravatta, da Francesco Malavolta sul bordo di un barcone stracarico di disperati in vista di Lampedusa. Natalia Cangi, direttrice organizzativa dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, da qualche tempo ha cominciato ad accostare alle memorie patriottiche degli anni bellici italiani del secolo scorso, i freschi ricordi degli scampati alle battaglie di oggi, dei forestieri che l’Italia adotta controvoglia: « Siamo partiti dagli armeni e dal genocidio di un secolo fa » , racconta, « con Raffaele Gianighian » . Nato nel 1906, deportato a nove anni, Raffaele cresce come rifugiato in Italia. Nella sua autobiografia descrive l’emozionante ritorno nei suoi luoghi d’origine, per la prima volta, dopo 60 anni. « La parola integrazione » , ha scoperto la direttrice, « di solito non piace ai migranti. Con
A Pieve Santo Stefano, nell’Archivio Diaristico Nazionale