Se la classe è un’azienda
Niente presidi, ora ci sono i dirigenti che vigilano su migliaia di studenti
Una volta li chiamavano presidi. E c’era nel nome un’autorevolezza familiare. « Guarda che ti mando dal preside » , diceva il professore, in classe, allo studente che disturbava durante la lezione ( frontale, s’intende, che, se ben fatta, con passione, rimane un momento magico). Ora bisogna chiamarli “dirigenti”. Sissignori, come i dirigenti d’azienda. Perché nelle intenzioni del MIUR la scuola dovrebbe essere un’azienda. Ma si potrà mai dire a un alunno: « Guarda che ti mando dal dirigente » senza sentire la stonatura, lo stridore, come un coltello che un commensale sbadato, o maleducato, faccia scricchiare su un piatto? Questione di parole? Ma dietro le parole si nascondono le cose, i climi emotivi, le anime. Una volta un preside si occupava di un solo istituto. E dedicarsi alla didattica e all’amministrazione, se fatto con coscienza, non era un lavoro da ridere. Ricordo che tanto, troppo tempo fa ( ero preside a Milano), all’inizio dell’anno, avendo saputo da un dirigente del Provveditorato, con cui avevo confidenza, di un istituto superiore rimasto con la presidenza scoperta, gli dissi ridendo: « Potreste darmelo in reggenza; oltre alla scuola che ho di già, s’intende » . Mi guardò con l’aria di chi pensa: « Questo è matto » , poi fece un sorriso e mi rispose: « Non è possibile » . Oggi, accumulare sulla schiena di un preside ( sorry, di un dirigente) due o tre istituti è quasi la norma, e la mia insensata proposta sarebbe accolta al volo. Certo, ci sono ancora, e per fortuna, scuole dal volto umano. Ma reggerle, anche per la massiccia invasione del burocratese e del didattichese, è sempre più difficile. E più faticoso. Perciò c’è chi sceglie, magari a malincuore, di andarsene in anticipo.
L’addio, dopo un annus horribilis. Sabrina Pirri, preside, fino al 31 agosto scorso, dell’Istituto Enea Silvio Piccolomini di Siena – composto da un Liceo Classico- musicale, un Liceo Artistico e un Liceo delle Scienze Umane –, ha 60 anni ed è una donna energica. Alle prese con un’incombenza non lieve: gestire 150 docenti e 1.200 allievi. Ma non è questo che l’ha persuasa ad andare in pensione dal primo settembre. Mi pare di capire, dalle sue parole, che la scuola, come per molti, è stata la sua vita. Perché dunque – le chiedo – ha lasciato? Sabrina è esplicita: « Certo, la scuola è stata la mia vita, un’occasione di riscatto sociale e culturale ( sono figlia di un emigrante calabrese con la quinta elementare). Però, in totale dissenso con la legge 107, ho scelto il pensionamento con “Opzione Donna” e 36 anni di servizio. Ci perdo del denaro – prenderò circa 1.380 euro, la metà del mio stipendio, non i pochi spiccioli di cui parla il premier – ma la vita e la dignità non hanno prezzo. Ho fronteggiato alla meglio, grazie all’aiuto di molti docenti, questo annus horribilis. Gli ultimi adempimenti? I più gravosi: in cauda venenum! L’attribuzione del bonus premiale, la chiamata diretta degli insegnanti… Rischiosi, forse anche anticostituzionali! » . Ritroveremo Sabrina e la sua legittima amarezza nel prossimo numero.