Coppi
Come il grande campione, anche il nostro Paese colpito dal terremoto saprà rialzarsi e vincere, scrive un lettore. Un altro torna indietro fino all’Homo sapiens per dire che non dobbiamo nutrire sensi di colpa
Leggendo il bel “fondo” di Aldo Cazzullo con le sue profonde considerazioni sul terremoto “nell’Italia dei borghi”, mi è venuta in mente, soprattutto quando Cazzullo ha scritto: «Il Paese è impaurito. Le ragioni della sua bellezza sono le stesse della sua fragilità», mi ha ricordato l’avventura sportiva del campione più amato e più grande del ciclismo italiano e internazionale, vale a dire Fausto Coppi. Anche il “campionissimo” aveva delle ossa che erano dei cristalli, dovette correre dopo una guerra che aveva distrutto l’Italia, soffrì per la morte incredibile del fratello Serse, scomparso dopo una caduta in un passaggio a livello. Anche Coppi sembrava finito dopo la rovinosa caduta di Primolano nel Giro del ’50 e prima ancora, dopo una guerra che gli aveva portato via almeno cinque anni di carriera e poi dopo nel ’51, dopo la dipartita del fratello già ricordato e più tardi ancora a seguito di un amore, burrascoso e proibito per l’epoca, con la “dama bianca”. Ma Coppi si rialzò sempre, si rimise in sella e continuò a dominare sull’intero lotto dei concorrenti; perché Coppi era l’Italia, l’Italia che voleva risorgere dopo l’avventura del fascismo e la tragedia della guerra, era l’Italia che di fronte al mondo chiedeva rispetto, era l’Italia che voleva risorgere più bella e più splendida di prima, perché voleva ritrovare i suoi primati nel campo dell’arte e della cultura, era l’Italia dei borghi che Coppi voleva riabilitare con le sue straordinarie vittorie. Quei borghi che ora sono andati distrutti, ma che presto rivedranno la luce perché la loro fragilità li farà rivivere più eleganti e preziosi di prima. Coppi tornò sempre a vincere perché era nato per vincere. I nostri piccoli comuni rinasceranno perché lì c’è l’Italia degli artisti, degli artigiani, dei cultori del saper vivere e del voler vivere. L’Italia non è nata per arrendersi, tutta la nostra storia ce lo dimostra. Ci aiuteremo reciprocamente e su ogni campanile svetterà il tricolore. Coppi non era soltanto “un uomo solo al comando”, perché sul Galibier l’eterno rivale, l’indistruttibile Gino Bartali, gli passò la famosa borraccia. Con quella volò verso la vittoria. Quella borraccia sarà il simbolo della rinascita dei nostri borghi. L’ Italia, come Coppi, tornerà ancora a vincere.
— Secondiano Zeroli, Bagnoregio (Viterbo)
Gli antropologi politicamente corretti si battono il petto accusando (autoaccusando) noi Homo sapiens di stragi e genocidi. Questa auto-flagellazione contribuisce al declino dell’Occidente, che è portato a nutrire sensi di colpa ignoti ad altre culture. Noi sapiens avremmo eliminato le altre sottospecie di Homo, a cominciare dal Neanderthal (un fatto però del quale al momento non esistono prove). Inoltre, avremmo fatto strage di vertebrati. A me sembra che questo tipo di discorso imponga una scelta tra due presupposti diversi. Il primo è che l’uomo sia da considerare un animale come gli altri, e allora il fatto che 15.000 anni fa abbia fatto fuori la “tigre dai denti a sciabola” e 800 anni fa i “grandi uccelli moa” è del tutto insignificante: sono peripezie dell’evoluzione, nelle quali l’animale più adattato va a occupare uno spazio ecologico insufficientemente presidiato. Il presupposto alternativo è che l’Homo sapiens, in relazione al suo “grande cervello”, sia qualitativamente diverso. Qui si apre il Vaso di Pandora dei problemi. Si ricade su quel Genesi 1, 27 che irrita gli animalisti: nessuna parità dato che l’Uomo, creato a somiglianza di Dio, domina sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili. Allora, se ad esempio l’uomo cancella la specie Raptus cucullatus, il problema è esclusivamente ecologico, ma sparisce, come dimensione, in confronto ad una (naturale) variazione anche minima del plancton marino, mentre ognuna delle periodiche inversioni del campo magnetico terrestre provoca più estinzioni di quante ne abbia finora prodotte l’uomo coi suoi pesticidi e le sue baleniere. Quanto all’accusa di genocidio, è evidentemente basata sul sospetto che noi sapiens abbiamo fatto fuori neanderthaliani, denisoviani, eccetera. Ma è solo un sospetto. L’unica cosa (quasi) certa è che i sapiens e quei nostri cugini si sono conosciuti anche in senso biblico, come dimostra il genoma. Che il maschio sapiens gradisse la compagnia della bruna denisoviana, malgrado la differenza di lingua, e che la signora sapiens possa avere ritenuto interessante il gagliardo neanderthaliano (magari solo una botta e via) è da considerare plausibile. Ma oggi, nessun sentimento di colpa, per favore! — Rosalino Sacchi, già ordinario di Geologia, Università di Torino
Riguardo al tema “Il senso del dovere”, voglio associarmi al malessere espresso nelle lettere inviate a e alla percezione di un collasso generale verso il basso. Certamente occorrerebbe ripartire puntando sull’Educazione Civica, un tempo materia di studio ora dimenticata, e dalla scuola che, purtroppo, pare non essere in grado di supplire alle carenze della famiglia. Come ex insegnante, appartenente ad una generazione che aveva inculcato il senso del dovere “a prescindere” dalla retribuzione, noto che vige un pressappochismo generalizzato in materia di educazione verso il prossimo, che dà la stura a un circolo vizioso contagioso. Il senso del dovere è percepito come valore che riguarda gli altri, ma la cui tiepida applicazione è fonte di tolleranza se direttamente coinvolti. Ritengo che la superficialità caratterizzi la nostra società, anche se a volte è capace di grandi gesti di solidarietà, non sufficiente però a riempire i vuoti della vita quotidiana e dell’impegno costante con valori ormai considerati obsoleti. Churcill riteneva che ognuno dovesse fare quello che deve, nonostante le conseguenze personali, perché questa è la base di tutta la moralità umana e, mi permetto di aggiungere, della sua dignità.
— Ornella Ferrari Pavesi