Bruciati
La sindrome da “burnout” crea esaurimento e depersonalizzazione. Deteriorando valori, autostima, dignità, relazioni affettive e familiari
COME CI ACCORGIAMO DI ESSERE “SCOPPIATI”
Stremati, senza forze, di cattivo umore. Incapaci di intravedere anche solo un aspetto positivo nel tempo passato in ufficio. In una parola, “bruciati”: burnout è infatti il termine inglese che indica il sovraffaticamento, ma fa capire bene quanto ci si possa sentire esauriti se arriviamo a detestare il lavoro, che volenti o nolenti occupa la maggior parte delle nostre vite. Secondo uno studio pubblicato di recente su Frontiers in Psychology uno dei motivi alla base del burnout è la discrepanza fra ciò che ci aspettiamo dal nostro impiego, più o meno consapevolmente, e ciò che davvero ci offre in termini di opportunità e doveri: se per esempio amiamo il contatto con gli altri e le mansioni non lo prevedono, il rischio di ritrovarsi senza energie mentali e fisiche cresce. « Ci sono due tipi di bisogni inconsapevoli dei lavoratori: la motivazione al potere, ovvero la voglia di assumersi responsabilità per gli altri, di discutere e mantenere la disciplina per sentirsi forti e affermarsi; la motivazione alla “vicinanza” con gli altri, che spinge a cercare relazioni personali positive per provare fiducia, calore e senso di appartenenza spiega l’autrice, la psicologa dell’università di Zurigo Veronika Brandstätter. I nostri dati mostrano che il divario fra questi due tipi di aspettative e la realtà può favorire il burnout: la frustrazione di necessità inconsce lavora come uno “stress sotterraneo” che poi esplode con un esaurimento fisico e mentale » . Secondo l’esperta, quindi, sarebbe importante prevenire la divergenza fra desideri e realtà o quantomeno “ricucirla” se si manifesta: « Si potrebbero individuare le motivazioni implicite dei lavoratori già al momento del colloquio, per destinarli alla posizione che più si avvicina ai loro bisogni, oppure si potrebbe dare modo a ciascuno di arricchire competenze e incarichi per andare incontro alle aspirazioni personali, per esempio favorendo il lavoro di squadra se si ha una forte necessità di contatto con gli altri » , sottolinea Brandstätter. Oltre alla contraddizione fra esigenze inespresse e realtà, anche altri fattori però accrescono il pericolo.
Un approccio frenetico al lavoro incrementa il rischio di burnout, stando a un’indagine dell’università di Saragozza: chi lavora più di 40 ore a settimana, in genere persone ambiziose con molti impe- gni e doveri, ha una probabilità sei volte maggiore di esaurire le proprie energie fisiche e mentali rispetto a chi lavora meno di 35 ore.
“da frenesia” è frequente anche in chi ha più di un lavoro o ha un contratto a tempo determinato, in questi casi per colpa dell’ansia di trovare un impiego a tempo pieno o una maggiore stabilità.
anche i “consumati”, che hanno svolto a lungo lo stesso lavoro: in genere questi lavoratori si sentono privi di responsabilità, credono che il loro valore non sia riconosciuto e apprezzato, si annoiano.