La fotografia ai tempi del selfie
Un manuale d’autore per decifrare il complesso mondo delle immagini. Com’era e com’è
In principio era l’immagine. Se il mondo cominciasse ora, non ci sarebbe descrizione più perfetta » . Michele Neri, autore di Photo Generation ( Gallucci editore) e protagonista di una stagione entusiasmante del fotogiornalismo in qualità di direttore dell’agenzia Grazia Neri, ha una sensibilità evidente per l’uso, e l’abuso, dell’immagine. A mio avviso, però, in principio era la distorsione semantica. Del “verbo”, sempre lui, che da secoli sta in principio. Se un marziano, per riprendere un paradosso di Michele Neri, volesse valutarci, riterrebbe che il termine “amico” ( sacro dalla notte dei tempi) nella nostra società è il contatto con l’altro che si aziona grazie a un algoritmo. L’uso diffuso di Internet e della tecnologia segna la nascita di un nuovo modo di vivere: tanti vantaggi ma anche lo spettro del “ground- zero” dei contatti umani a lunga gittata. Qualunque cosa si pensi della comunicazione che corre sulla rete, la parola abusata ha mutato di senso e la sintassi è un fardello. Come poteva non cambiare di senso e destino la fotografia, un segno prodotto da un gesto distratto? E adesso perché leggere Photo Generation? 1. Riassume con passione e eleganza che cosa è stato il fotogiornalismo prima dell’avvento del digitale; 2. È il prodotto di chi molto sa sull’argomento e si è confrontato ( spesso citandoli) con gli autori più all’avanguardia ( filosofi, psicoanalisti, storici della fotografia, blogger…) che con caparbietà individuano le insidie che derivano dall’uso disinvolto dei selfie e delle immagini ( l’autore smette di chiamarle fotografie); 3. Sollecita il recupero della “mission impossible”: utilizzare le fotografie come strumento di conoscenza, ovvero come mezzo per aiutarci a vivere. È il titolo dell’installazione di Erik Kessels, A fianco, la cover di Gallucci, 107 pagine). L’algoritmo del buonsenso. Ma a questo punto si ritorna al principio, al verbo appunto. Perché per riconoscere una notizia tramite la fotografia bisogna avere la pazienza di contestualizzarla. E ciò esige concentrazione. Diversamente, come dice Neri, si cade nell’attuale trappola, la dittatura dell’emozione: scattare o pubblicare una fotografia con lo scopo di sorprendere per sdegno o far battere il cuore con il minor sforzo possibile. Al tempo dell’analogico, quando la stampa aveva più fiducia in se stessa e nel proprio avvenire, i professionisti della fotografia ( chi al fronte danzava con la morte come Anthony Suau e David Turnley, chi come l’eccentrico Alexander Tsiaras si dedicava alla scienza dilapidando le sue finanze, chi come Douglas Kirkland aveva un rapporto privilegiato con le star del grande schermo…) avevano la possibilità di farsi un nome e di consolidare la propria repu- tazione. Ogni scatto salvato da un editing rigoroso rappresentava un impegno con un pubblico ritenuto, a torto o a ragione, più attento o meno distratto. Per colpa di nessuno in particolare oggi non è più così. Non riesco a essere indulgente con la moda dei selfie e degli scatti compulsivi. Come non sono indulgente con le parole vomitate sulla rete. Non so quale società attende i millennials, e le generazioni nate dopo di loro con lo smartphone in mano, che intuiscono usi della super- connessione che noi possiamo solo apprendere arrancando. Molti mi sembrano attrezzati a innescare l’algoritmo del buonsenso. Come il giovane amico Sebastian, che questa estate ha duramente rimproverato la madre per aver postato una foto che tradiva il luogo in cui si trovava la famiglia. Misura, rispetto e riservatezza ( vocaboli antichi) sembrano le parole chiave per sfruttare al meglio uno sviluppo tecnologico che, come dice Werner Herzog in Lo and Behold Reveries of the Connected World ( 2016), nessun oracolo aveva previsto. Di recente la pop star Mika in Tv si è espressa contro i selfie. E c’è da scommetterci che avrà proseliti. .