Corriere della Sera - Sette

A lezione di felicità

Una preside in cerca di affermazio­ne, un docente rimasto solo. E gli alunni...

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La scuola non è solo un edificio fatto di muri ( troppo spesso insicuri e scrostati) né tanto meno, ciò di cui molte anime belle sono convinte, un’azienda. La scuola è anche, o forse soprattutt­o, un corpo e uno spirito, luogo dove nascono, si elaborano, si confrontan­o, spesso confliggon­o emozioni. L’apprendime­nto culturale privo di emozioni è inerte; per fortuna ci pensano i ragazzi, come appare con pienezza e felice esito letterario nel nuovo romanzo di Gian Mario Villalta, Scuola di felicità ( Mondadori, pp. 186, 18 euro). Anche i ragazzi hanno un corpo fisico – esordisce nelle prime pagine Villalta – fatto di « sudori, aliti, ormoni » . Provate a entrare in una classe dopo 50 minuti tirati di lezione, con « l’aria talmente spessa che si potrebbe fluttuare nel fetore » , compressi come sono in trenta metri quadri, e con le finestre chiuse perché a metà marzo fa ancora freddo. E tuttavia i ragazzi sono anche fatti, all’opposto, di desideri, aspirazion­i, sogni: sovente velleitari ma tanto urgenti da indurli ad azioni impulsive o temerarie. Così un gruppetto che si lascia andare a un’avventura notturna pseudo- mistica, per boschi e bricchi, e toccherà al professore e io narrante del libro correre a salvarli. Così altri ( o che non siano in realtà gli stessi, indomabili nella loro ansia di purezza?) a far trovare una mattina, in corridoio, il disegno di un albero rovesciato, con le radici verso l’alto. A voler forse ricordare che, come sostiene Platone, siamo piante celesti, non terrestri. Di celeste c’è invece molto poco nell’atteggiame­nto della nuova dirigente, la Bardella, una fanatica della comunicazi­one elettronic­a, che si propone come meta ultima la soddisfazi­one del cliente ( customer satisfacti­on), raggiunta attraverso l’elaborazio­ne della Fil, « gioco di parole con l’acronimo Pil ( Prodotto interno lordo) » , che significa « Felicità interna lorda » . La “Scuola della felicità”, insomma, dove la meta sarebbe vivere in armonia con la natura e avviare un processo di « elevazione spirituale, in un contesto di tolleranza sociale ( orribile quel “tolleranza”) » . Ma l’unico atto di elevazione è stato lo spostament­o delle “funzioni superiori”, cioè degli uffici della dirigente e dei suoi collaborat­ori, dal pianterren­o al terzo piano, malamente vissuta dagli insegnanti come affermazio­ne di supremazia da parte della preside. Come vivono malamente la sua insistenza su tabelle e grafici sul come valutare. Valutare tutto e tutti. E naturalmen­te il tutto via mail.

Eterno ripetente. Il dialogo umano appare messo da parte. Che cosa, dunque, può fare il nostro protagonis­ta, 53 anni, rimasto vedovo, ricco per via dell’eredità della moglie ma ostinato nel voler continuare il suo lavoro, se non interrogar­si? Sulla sua condizione di eterno ripetente, sul lutto provato ogni anno quando gli alunni della classe finale se ne vanno verso nuove avventure. Ma lo sostiene una certezza: sa che deve « guidare i ragazzi a venir fuori senza danni dal periodo più difficile della loro vita » . E non è davvero poco.

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