Cecco Beppe?
Moriva cento anni fa, mentre noi italiani lo stavamo combattendo. Un lettore si chiede: perché gli inviati Rai espongono al pubblico ludibrio il peggiore in campo? Un ricordo e... le previsioni di Leopardi
Aconclusione delle sintesi delle partite di calcio, a da quest’anno, l’inviato della Rai indica il “migliore in campo” e il “peggiore in campo”. Nulla da eccepire sull’indicazione del migliore, ma mi chiedo se esista un motivo serio e ineludibile che renda indispensabile e giornalisticamente utile indicare il peggiore. Certamente non serve per decifrare meglio l’andamento della partita, ma rappresenta certamente un modo inelegante di esporre al pubblico ludibrio un calciatore. Credo che ciò non rientri nemmeno nell’etica sportiva e giornalistica, ma nel crescente e sempre meno tollerabile protagonismo dei vari personaggi coinvolti nei programmi sportivi, spesso non utili, fuorvianti e fastidiosamente autocelebrativi. Ritengo di avere pieno diritto di esprimere la mia disapprovazione, e di essere ascoltato perché alla Rai pago il “canone”.
— Giovanni Cama
Ho avuto la fortuna, in un piccolo paese del Veneto, di frequentare una scuola elementare a tempo pieno negli anni 70, uno dei primi esperimenti in un contesto di grande cambiamento sociale. La scuola elementare è un elemento cardine nella formazione. Il mio ricordo è una scuola aperta, capace di sviluppare relazioni e contaminazioni positive, gli insegnanti sempre presenti, empatici e attenti non solo al programma ma alle persone. Ricordo i laboratori della lavorazione della pelle, un uso della manualità che aveva come scopo quello di insegnare a fare le cose bene e con passione. Soprattutto la capacità di dare valore anche al lavoro manuale, nobile attività che fonde il sapere e il saper fare. Una scuola che mi ha aiutato ad acquisire conoscenze, esperienze e abilità. Ma soprattutto mi ha regalato le capacità di condividere, di provare emozioni e di saper cogliere la cromaticità della vita. Un privilegio, e ancora oggi porto nei ricordi con affetto quella bella stagione.
— Alessandro De Zorzi
Capita proprio a fagiolo il “ControVerso”di Nuccio Ordine del 16 dicembre sul relativismo del Leopardi. Mi dà l’opportunità di approfondire il fenomeno noto come “delirio d’onnipotenza” che attanaglia l’uomo moderno. Leopardi nell’Operetta
critica «l’antropomorfismo, le dottrine che considerano l’uomo come un imperatore del sole, dei pianeti». È stato profetico: ciò che predisse nella prima metà dell’Ottocento si sta avverando. L’uomo moderno clona già gli esseri viventi, iberna i corpi per centinaia d’anni con la presunzione di riportarli in vita, vuole creare la vita in laboratorio, vuole allungare l’attesa di vita fino a 140 anni, vuole colonizzare i pianeti, vuole correggere i valori climatici della Terra ecc. Della soffrono anche gli scienziati, non solo i politici e gli affaristi. Facendo leva sulle nuove raffinate tecnologie e sulla scienza più sofisticata, l’uomo moderno forza la mano alla natura perdendo il senso del limite. C’è il rischio che manipolando processi così complicati si ottengano risultati non previsti, non controllabili. Anche i Titani nell’antica Grecia per tracotanza, sfidarono Zeus volendo scalare l’Olimpo ma Zeus li castigò. Non voglia che a Dio venga in mente di castigare i moderni Titani per la loro presunzione ed arroganza.
I— Livio Gibertini l 21 novembre 1916 si spegneva, nella reggia di Schönbrunn, a Vienna, Francesco Giuseppe d’Asburgo, imperatore d’Austria e re d’Ungheria, all’età di 86 anni dopo 68 anni di regno battendo il “record” detenuto dalla regina Vittoria d’Inghilterra. Il centenario è stato quasi del tutto ignorato dalla grande stampa nazionale e dagli altri mezzi di comunicazione. Eppure il grande vecchio andava ricordato se non altro perché, nel suo lunghissimo regno, iniziato nel 1848, aveva incrociato più volte la nostra storia come fiero avversario delle tre guerre d’indipendenza fino all’inizio della Prima guerra mondiale. Diceva che nella vita nulla gli era stato risparmiato: il suicidio del figlio Rodolfo, principe ereditario, la morte della moglie Elisabetta di Baviera, detta Sissi, che gli aveva dato 4 figli, assassinata da un anarchico italiano e l’uccisione del nipote Francesco Ferdinando, erede al trono, nell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, scintilla che provocò lo scoppio della Grande Guerra, conclusa con la dissoluzione dell’impero. Amato dai sudditi del suo impero multietnico che parlavano lingue diverse, fu sempre inviso agli italiani che coniarono per lui il nomignolo ironico di Cecco Peppe. Non ebbe pace neanche da morto, perché il governo italiano proibì di rendere noti i telegrammi di condoglianze del papa Benedetto XV e del cardinal Gasparri, segretario di Stato, al successore Carlo I. Né si potè celebrare una messa di suffragio in San Pietro per un sovrano dichiaratamente cattolico per non creare tensioni con l’Italia da tempo in guerra con la duplice monarchia. La canzone (o leggenda) del Piave, composta nel giugno del 1918, lo bollò come “impiccatore”, una sorta di per i posteri. Se ancora oggi il suo nome può essere ricordato, lo dobbiamo al termine “cecchino”, entrato nel lessico di ogni conflitto che, in origine, indicava, con riferimento al soprannome dell’imperatore, i tiratori scelti dell’esercito austroungarico, incubo dei nostri soldati nella guerra 1915-18. — Enrico Scifoni, Roma