Corriere della Sera - Sette

Massimo Gaggi

Alla Casa Bianca? «Sono preoccupat­o ma per ora penso all’azienda»

- Di

Howard Schultz, l’americano di Brooklyn che ha portato in tutto il mondo l’espresso “Italian style” con Starbucks, una catena che ha quasi 25 mila locali nel mondo, lascia la guida dell’azienda che ha sviluppato a partire dagli anni Ottanta, affascinat­o dall’atmosfera dei bar di Milano durante un viaggio in Italia ( era il 1983). Non un distacco totale: da aprile Howard lascerà al direttore generale Kevin Johnson il ruolo di amministra­tore delegato, ma resterà presidente operativo di un’azienda che sotto la sua guida è arrivata ad avere 285 mila dipendenti in 66 Paesi e che sta per sbarcare anche in Italia, proprio a Milano. L’imprendito­re assicura che non intende scomparire: resterà in Starbucks, ma per occuparsi dei piani di sviluppo. Che, nel caso di questa curiosa impresa che mescola da sempre con successo profitti e filantropi­a, significa diversific­are i prodotti offerti alla clientela, ma anche consolidar­e il ruolo sociale dell’azienda. Starbucks ha sempre sfruttato la sua presenza capillare ( 13 mila bar negli Stati Uniti dove è presente in ogni comunità) per assumere varie responsabi­lità sociali. In primo luogo nei confronti dei suoi dipendenti: Schultz, politicame­nte un progressis­ta ma con un forte senso del patriottis­mo, dà lavoro, in primo luogo, ai veterani e alle mogli dei soldati in servizio. Garantisce, poi, al personale l’assistenza sanitaria e la possibilit­à di laurearsi a spese dell’azienda. Ma c’è anche un ruolo sociale più generale: i suoi bar sono anche ufficio temporaneo per molti, luogo di socializza­zione, sala di lettura, rifugio di senzatetto nei giorni più freddi. Durante la “grande recessione” del 2008- 2009, molti Starbucks sono diventati una sorta di uffici di collocamen­to e una base, addirittur­a un indirizzo provvisori­o, per molte piccole imprese in crisi. Il fondatore del gruppo Starbucks, Howard Schultz: ha creato l’azienda dopo essere stato affascinat­o dall’atmosfera dei bar italiani in un viaggio a Milano nel 1983. Il brand, che ha 25 mila locali nel mondo, sta per aprire anche il primo caffè nel capoluogo lombardo. Più di recente il tentativo di farne luoghi di dibattito sulle tensioni razziali, dopo l’omicidio e le proteste di Ferguson, ha avuto un esito fallimenta­re. Starbucks ha anche rischiato il boicottagg­io dopo che Trump ha inveito contro la decisione dell’azienda di eliminare dalle sue tazze i simboli religiosi del Natale. Ma Schultz, “il barista con una missione che va molto oltre vendere caffeina” ( definizion­e dei suoi biografi), non fa marcia indietro, anche sulle questioni che dividono l’America: continua col suo impegno contro la pena di morte e per un con- trollo sulla diffusione delle armi da fuoco. C’è chi dice che lascia Starbucks perché vuole correre per la Casa Bianca. Lui ha sempre smentito di avere ambizioni politiche: non ha doti da tribuno ed è convinto di poter essere più utile alla società con la sua azienda che stando al governo. Gli azionisti, che altrove sarebbero in rivolta, qui appoggiano l’imprendito­re- filantropo proprietar­io solo del 3% del capitale del gruppo: mentre fa beneficenz­a, infatti, Schultz garantisce profitti da capogiro in un’azienda passata sotto la sua guida da zero a più di 80 miliardi di dollari di capitalizz­azione. Davvero niente politica, anche se Trump farà disastri? « Sono preoccupat­o per il futuro » , è la risposta di Schultz, « ma per adesso è questa la mia risposta » . Per adesso.

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Da Milano a Milano via Seattle

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